Avete mai conosciuto un figlio badante? Siete mai entrati in contatto con queste straordinarie creature che, senza contropartite e con molti rischi, restituiscono, a distanza di anni, qualcosa di ciò che hanno ricevuto dai loro genitori? Parliamo di un popolo di 1 milione di italiani. Record europeo. Un milione di uomini e donne interamente dedicati a un parente anziano, non autosufficiente, che diventano 9 milioni se andiamo a calcolare quelli che invece offrono, in qualità di caregiver (la tradizione anglosassone di badanti) alcune ore della loro giornata.
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Figli badanti
I figli badanti fanno esattamente lo stesso lavoro della professionista. Ma con alcuni elementi in più. Passano ore e ore con i genitori, magari distesi sul letto o seduti in poltrona. Li accompagnano in bagno. Li portano a fare una piccola passeggiata, anche solo in terrazza. Controllano e somministrano medicine. Li aiutano a lavarsi e vestirsi. Cucinano per loro. Tutto ciò avviene in un meccanismo psicologico da scambio dei ruoli scolpiti nell’architettura della famiglia.
Figli badanti dei genitori
In pratica: i genitori di ieri, diventano i figli di oggi, tornando bambini. E i figli di oggi indossano i panni dei genitori di oggi, esercitando le responsabilità di un adulto. La differenza tra un caregiver professionista e un figlio badante è soltanto in una parola: coinvolgimento. Partendo dal principio della restituzione e dall’amore di un figlio per un genitore o per un parente stretto, questo milione di generosissimi italiani corre qualche rischio. Fino a mettere in gioco la propria vita, e sprecarla rispetto alle aspettative individuali evaporate per dedicarsi a tempo pieno all’assistenza.
Spesso il figlio badante finisce in depressione. Assorbe tanto dolore e tanta fatica dalla sua attività da scivolare, senza neanche esserne consapevole, in una zona grigia di malumore congenito, con una caduta psico-fisica. La situazione si aggrava se la stessa persona è un «assistente sandwich» che deve badare allo stesso tempo ai genitori anziani e non autosufficienti e anche ai figli in casa propria.
Il carico fisico ed emotivo
In due casi su tre il figlio badante ha qualche sintomo di stanchezza cronica, insonnia, crisi di collera e di pianto. Anche in questo caso, come per la depressione, è il prezzo che sta pagando per il suo coinvolgimento emotivo in un lavoro che invece una badante svolge come una qualsiasi attività professionale. Il premio Nobel per la Medicina, Elizabeth Blackburn, ha calcolato che i parenti badanti hanno un’aspettativa di vita tra i 9 e i 17 anni inferiore alla media.
Evitare questi rischi che poi incidono in modo stabile sulla nostra salute è possibile partendo da qualche piccola precauzione. Il figlio badante non dovrebbe avere né pudori né reticenza nel coinvolgere anche gli altri familiari in questa rete di assistenza, nel welfare fai-da-te che abbiamo costruito nelle nostre case. Il carico del lavoro da caregiver non può andare tutto sulle spalle di una sola persona, che così, tra l’altro, vizia per esempio i suoi fratelli e sorelle. E il figlio badante non può sentirsi investito da una speciale missione da portare a termine: la condivisione contribuisce a rendere tutto più efficace e sfila una sola persona dall’abisso di quei danni ai quali abbiamo accennato.
Senso di colpa nei confronti dei genitori anziani
Assistere un genitore non autosufficiente non può diventare mai un’ossessione. Non è una cosa utile né a chi esercita il ruolo di badante, né al paziente. Un conto è essere sempre generosi con le attenzioni e con la disponibilità, altra cosa è appiattire la propria esistenza nella funzione di figlio badante. Ciò significa semplicemente stracciare al vento la vita. Cosa non utile e non giusta. Gli italiani sono tra i più coinvolti in questo rischio ossessione, e lo dimostra un dato laterale ma molto significativo: il coinvolgimento telefonico con i pazienti. Il 41 per cento dei figli adulti si sentono più volte al telefono nel corso di una giornata con il loro genitori, anche solo per salutarli. Questa percentuale crolla al 16 per cento in Francia e al 21 per cento in Inghilterra.
Come deve accettare l’aiuto degli altri, in una logica di rete familiare, così il figlio badante deve trovare lo spazio per il proprio tempo libero, i suoi svaghi, la sua libertà mentale e fisica. Non può mai e per alcun motivo al mondo ridursi allo status di prigioniero della persona che sta assistendo. E guai a barricarsi dietro i sensi di colpa o il presunto primato della responsabilità: se lo fate, siete già in depressione e avete bisogno di farvi aiutare da un medico per uscire dal tunnel.
PRENDERSI CURA DEI GENITORI
Stesso discorso per la parte economica della questione. Il 43 per cento degli italiani disabili ha una badante, il cui costo, facendo le cose in regola, viaggia attorno ai 15mila euro l’anno. A fronte di questa uscita c’è una possibile entrata di un assegno di accompagnamento che il disabile può incassare, pari a circa 600 euro al mese. Una buona idea potrebbe essere quella di utilizzare questo denaro per reclutare, alcune ore alla settimana, una badante professionista, e liberare spazio per la propria vita, lontano dall’ammalto.
Il figlio badante, infine,deve imparare a conoscere bene la malattia di cui soffre il suo genitore. E ciò per non drammatizzare la posizione dell’assistito ed essere invece reattivo quando le cose non vanno secondo la consuetudine. Conoscere la malattia significa anche aumentare il livello della nostra consapevolezza, creare un nuovo canale di comunicazione con la persona che stiamo assistendo, sentirci più vicino a lui. Sempre con un’idea fissa in testa: stiamo facendo una cosa bellissima, non sprechiamola annullando la nostra vita.
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