L’allarme sugli allarmismi non è un gioco di parole. Siamo sommersi da previsioni e immaginiamo che qualsiasi evento sia riconducibile a un calcolo di probabilità che possiamo stimare in anticipo: dai bollettini meteo ai terremoti, dai contagi dei virus alle catastrofi ambientali. I componenti della Commissione Grandi rischi sono stati rinviati a giudizio per omicidio colposo plurimo in quanto avrebbero sottovalutato gli allarmi del terremoto in Abruzzo. A parte l’indiscussa competenza scientifica degli imputati che induce a riflettere sulle accuse contestate, la domanda è questa: fino a che punto si può prevedere la Catastrofe? L’Appennino italiano si muove da quindici milioni di anni, e c’è una possibilità su centomila che dopo uno sciame sismico venga fuori il disastro. Annibale Mottana, accademico dei Lincei e studioso di fama internazionale, ha risposto così a chi gli chiedeva quali relazioni esistono tra uno sciame sismico e l’arrivo di una scossa: «Le corna per uno scongiuro». D’altra parte l’inchiesta di L’Aquila ha un precedente significativo, quando nel luglio del 2006 Guido Bertolaso ed i suoi più stretti collaboratori finirono sotto inchiesta per non avere dato l’allarme di un’alluvione a Vibo Valentia che costò la vita a quattro persone. Titoli sparati sui giornali, accuse pesanti, inchieste a tappeto, e due anni dopo arrivò l’archiviazione da parte della Procura.
Quanto più gli eventi sono gravi tanto più gli allarmi diventano relativi. Semmai servono ad approfondire studi e ricerche sui fenomeni e rappresentano un ottimo deterrente per gli interventi sul territorio: molti edifici crollati a L’Aquila non potevano certo salvarsi con le profezie di un indovino, ma andavano costruiti secondo norme antisismiche che non sono state rispettate. Per il resto dobbiamo essere consapevoli del mistero della Natura, della imprevedibilità delle sue reazioni, e come, come scriveva Jean Jacques Rousseau nel suo testo Il contratto sociale, «è una previsione necessaria capire che non si può prevedere tutto». In cima alle nostre preoccupazioni, quasi il 60 per cento degli italiani piazzano la distruzione dell’ambiente e la protezione della salute. Hanno ragione, ma non è necessario annunciare la scomparsa delle isole Maldive o la fine dei ghiacciai nel mondo per capire che i nostri stili di vita sono spesso incompatibili con la tutela della Natura, tanto che il pianeta è in rosso fisso: distruggiamo un terzo in più delle risorse naturali che siamo in grado di riprodurre. Il senso del limite, compreso quello relativo alle possibilità di prevenire gli eventi, ci riporta alla nostra fragilità di uomini, e piuttosto l’esagerato allarmismo si trasforma in una subdola arma di una propaganda che fa leva proprio sulle nostre insicurezze. Perfino Osama Bin Laden utilizzava questo strumento di pensiero artificioso per predicare la guerra santa contro gli occidentali responsabili di cambiamenti climatici la cui gravità non è mai stata condivisa dalla comunità scientifica.
L’allarmismo esagerato diventa paranoia collettiva, crea falsi miti e guru della domenica, alimenta sprechi e speculazioni. Ogni anno facciamo i conti con un’ondata di influenza, e puntualmente scattano le reazioni più incontrollabili. Nel settembre del 2009 il virus per la febbre A consentì agli autisti dei mezzi pubblici di Napoli di restare a casa per motivi di sicurezza. Volevano la disinfestazione di tutti gli autobus in circolazione. Nel 2010 un altro allarme e altra confusione: 40 milioni di dosi di vaccini anti-influenzale disponibili e soltanto 35mila somministrate. Non servivano. «L’allarmismo può fare più danni del virus» scrisse in occasione dell’ennesima psicosi per l’influenza il professore Silvio Garattini. E qualche volta l’annuncio della Catastrofe dietro l’angolo più che proteggerci dal destino ci espone ai pericoli della stupidità.
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