Adolescenti digitali: vivere nello spazio di un bit

Vittorino Andreoli   Dopo aver descritto sul «Corriere» le principali caratteristiche della mente della digital generation e quindi gli elementi che la differenziano dalle generazioni dei padri e ancor più dei nonni, ora ci dedichiamo alle specificità del suo comportamento. Non esiste sempre una sequenza lineare con la mente che spinge o produce i differenti […]

bambini

Vittorino Andreoli

 
Dopo aver descritto sul «Corriere» le principali caratteristiche della mente della digital generation e quindi gli elementi che la differenziano dalle generazioni dei padri e ancor più dei nonni, ora ci dedichiamo alle specificità del suo comportamento. Non esiste sempre una sequenza lineare con la mente che spinge o produce i differenti modi di agire. Si conoscono comportamenti che si attuano come se la mente non li guidasse e ne diventasse essa stessa testimone. Vi appartengono tutti i movimenti automatici: quelli innati come togliere una mano dal fuoco oppure quelli appresi come il muovere le gambe su acceleratore e freno in auto, diventati automatici a seguito di un uso continuo. La dissociazione tra mente e corpo può legarsi però anche a un modo di pensare, alle filosofie. Gli adolescenti di oggi sono degli empiristi e quindi agiscono senza progettare l’ azione e senza nemmeno chiedersi quali ne siano il senso e le conseguenze. Ciò li differenzia dalle generazioni razionaliste portate invece a un primum cogitare, deinde agire. Il che significa vivere nella immaginazione ciò che poi si sperimenterà nel mondo esterno. Se per gli adolescenti non è facile parlare di filosofie nel senso di sistemi di pensiero critici e precisamente organizzati, non vi è dubbio che la loro tendenza a considerare e vivere soltanto il presente (il qui e ora) senza nemmeno percepire più il passato e il futuro li allontana molto dalle programmazioni. Il passato è dato, dal punto di vista comportamentale, da tutte le esperienze già fatte e che quindi diventano utili indicazioni anche per il cosa fare. Il futuro è lo spazio dell’ immaginazione che permette le cosiddette ipotesi e quindi i prevedibili accadimenti che seguono a quello specifico agire. La digital generation non ha radici: è come se il mondo fosse iniziato con la loro venuta e inoltre è come se tutto finisse tra un attimo, proprio perché la percezione del futuro è miope se non addirittura cieca. La prima conseguenza di questi rilievi riguarda l’ impegno. Lo si definisce come partecipazione e coinvolgimento nell’ eseguire un progetto per tutto il tempo di applicazione richiesto. E per questo si parla di costanza, di determinazione. L’ impegno ha dunque indubbiamente bisogno di un tempo futuro, ma necessita anche della percezione di una dimensione dell’ io che non si limiti a ciò che ora sono, bensì giunga a come potrò essere domani. È questa la differenza tra io attuale e io ideale: ciascuno di noi ha una rappresentazione di come vorrebbe essere, di che cosa vorrebbe fare. È ciò che dà un senso al «cosa vuoi fare da grande». Questa dimensione manca nella digital generation: vive in un mondo, quello digitale, che c’ è quando si accende il computer, finisce quando lo si spegne. Se dopo un attimo lo riaccende, riappare ma ha caratteristiche che non hanno alcun legame né di continuità logica né di vissuto con il precedente, per cui si tratta di un nuovo mondo che però dura la frazione del tempo in cui si mostra e si consuma. L’ adolescente ha quindi un comportamento del tipo stimolo-risposta: se c’ è uno stimolo è possibile una risposta, ma se manca egli è nel vuoto. E a uno stesso stimolo non dà una e una sola risposta, ma può variare ed essere del tutto casuale. Ciò non significa che manchi l’ interesse, ma semplicemente che dura l’ attimo presente. Non si può affermare che manchi il gusto, ma piuttosto che duri poco e che cambi nel «prossimo presente». Questa espressione, prossimo presente, può apparire una contraddizione, ma non per la digital generation che vive solo di «presenti». Il tempo è quindi definibile come una frammentazione di attimi presenti. L’ impegno è difficilmente duraturo, manca sia dell’ approfondimento sia del coinvolgimento. Vi è una disponibilità a fare un lavoro purché non abbia nulla che vada al di fuori del frammento di tempo impegnato. Nell’ ambito della scuola esistono certamente degli adolescenti che in quella interrogazione (stimolo) rispondono in una maniera corretta o errata secondo la valutazione degli insegnanti, ma è altamente probabile che ciò non sia affatto da leggere come impegno o disimpegno continuo, bensì come una prestazione-risposta e null’ altro. Stanno scomparendo i lavori fissi, quelli di tutta una vita, le carriere. Ebbene al di là delle ragioni economiche e produttive che possono aver causato questo importante cambiamento rispetto al passato, si deve aggiungere che essi non interessano affatto i giovani. Non ne percepiscono nemmeno il dramma della scomparsa. Hanno la mente «adatta» a lavori di breve durata e possibilmente mutevoli, per mantenere le caratteristiche di stimoli nuovi. Una delle ricadute di questo scenario la si avverte in maniera notevole sulle relazioni interumane, sui legami. Si può affermare che la digital generation vive le emozioni, ma non i sentimenti. In forma ancora più esplicita si tratta di una generazione incapace di legami sentimentali. L’ emozione è la percezione di un cambiamento dentro di sé a seguito di uno stimolo: un evento, una immagine, un incontro. L’ emozione è dunque una risposta acuta, dura fino a che è presente lo stimolo. I sentimenti sono modificazioni interiori che durano a lungo e possono diventare eterni come conseguenza di un legame con un’ altra persona: un legame interpersonale, tra due o più individui. Vi è il sentimento dell’ amore, dell’ amicizia, della solidarietà. La loro caratteristica è di mantenersi attivi anche quando la persona a cui si è legati non è presente. La presenza (mentale) dell’ assente, di chi non è sensorialmente visto o sentito. Dopo queste definizioni, seppur semplificate, si coglie come si rendano possibili nella digital generation le emozioni, ma come siano ardui i sentimenti. Ne deriva che con il mondo digitale (computer, Internet) sono possibili emozioni e molto forti, non invece le relazioni sentimentali. Anche quando si chatta con un certo John di Montréal, egli forse nemmeno esiste e, se c’ è, si tratta di uno dei tanti oggetti virtuali. È questo il quadro generale, con ovviamente modulazioni e variazioni singole, che dà la misura e i limiti della vita affettiva degli adolescenti di oggi. Questo non porta solo ai rapidissimi e molteplici contatti tra un adolescente e un altro, con il miglior compagno che diventa tra un istante il peggiore, ma riguarda anche i rapporti con i genitori e con gli insegnanti. Potremmo dire che si tratta di «legami» istituiti non usando una corda per scalare l’ Everest, ma fili di ragno o di seta. Nel momento in cui ci si lega, si sa esattamente che si rompe il filo che doveva unire. Sulla precarietà dei legami affettivi nel mondo adolescenziale non è nemmeno utile insistere, tanto è evidente. Non si può ignorare comunque che ormai è in atto una precarietà anche dei legami adulti, un vincolo matrimoniale dura mediamente 4 o 5 anni, ma nei «legami» adolescenti si parla semmai di giorni. Il vivere emotivamente e non sentimentalmente porta a cercare emozioni sempre più intense, ma non indirizza alla continuità dei sentimenti. Ed è invece su questa specifica caratteristica che si sostiene la sicurezza: una vera terapia alla paura. Le emozioni non producono sicurezza ma solo novità, eccezionalità, che hanno più a che fare con la quantità. La digital generation ha bisogno di emozioni sempre più forti come producessero una sorta di assuefazione per cui bisogna aumentare la quantità di una droga, onde avere lo stesso effetto che in precedenza si otteneva con una dose inferiore. Siamo giunti così a sottolineare una delle determinanti più significative per il comportamento: la insicurezza. Non abbiamo dubbio alcuno che la digital generation è insicura e pertanto fragile, presa sovente dal meccanismo della paura. La paura è una caratteristica biologica della specie, che fa percepire i rischi e quindi i pericoli individuati o semplicemente temuti, perché immaginari. La conseguenza di questa condizione esistenziale, almeno la più eclatante, è data dalla violenza. Sembrerà un paradosso per chi razionalmente ritiene che un gesto violento sia il risultato di una deliberata volontà di nuocere e non invece di una delle risposte possibili proprio alla insicurezza e alla paura. Dallo studio dei casi estremi, di quegli adolescenti cioè che hanno manifestato una violenza che ha provocato morte, ho appreso chiaramente che «se vuoi capire la violenza devi prima sapere che cos’ è la paura». Questa conclusione dovrebbe far meditare la generazione adulta e mostrare la inutilità di quegli interventi che pensano di risolvere la violenza adolescenziale attraverso severi autoritarismi e pene. L’ insicurezza è la condizione per sentirsi fuor d’ acqua, in pericolo, come se ogni cosa e ogni persona che si vede attorno fossero lì per attuare i pericoli percepiti. La paura, quando è molto intensa, ricorda il delirio: quella percezione per cui tutto il mondo sembra muoversi contro di «me». L’ altra risposta alla paura è data dalla fuga che in molte specie viventi è motoria, in quella umana si traduce per lo più psicologicamente, in un allontanarsi dal mondo come accade nella depressione. La violenza della digital generation è legata all’ insicurezza. Il livello a cui è giunta, che non è ancora estremo, lo si deve coniugare necessariamente anche alla violenza del mondo digitale. Usando un videogioco del tipo «killer», si può giungere a uccidere 900 sagome umane nei 3 minuti della sua durata e il punteggio record si lega proprio a quanti morti si sono fatti. Il capitolo se il mondo digitale produca più stimoli violenti di quanti non ne sedi meriterebbe una lunga disamina. Ma è certo che sia la violenza virtuale sia quella espressa nel mondo concreto sono uno specchio della paura e della insicurezza. Questa considerazione riporta agli eroi e naturalmente a quelli nuovi della digital generation. L’ eroe è colui che compie un gesto eccezionale, come bisogno estremo per vincere una profondissima insicurezza. Anche le guerre di trincea hanno mostrato che il motore degli assalti scattava quando la paura diventava insopportabile. Talora la scena era quella di un cerbiatto che attacca un leone. L’ insicurezza dà un vissuto anche di fallimento, di non essere all’ altezza degli altri, oscurato dalla poca stima di sé che emerge dal confronto con gli altri. La reazione violenta in questo caso si chiama «bullismo» e consiste in una performance eccezionale, che richiama quella di un compagno di classe realizzata in matematica o in fisica, ma che si svolge in domini del tutto estranei e anomali al luogo. Siamo così giunti a un altro aspetto del comportamento che è certamente il più drammatico e che merita proprio per questo la massima attenzione: la percezione della morte e l’ uccidere. È questo un argomento verso cui sono molto sensibile, poiché la distorta percezione della morte negli adolescenti è ormai un tema della patologia e della cura. Si sono attivate le home life, le case della vita, come risposta alla voglia di morire. Perdendo il significato del tempo che passa, di conseguenza la morte perde ogni valore escatologico e diventa un gesto. Come se si muovesse la mano per colpire o allontanare una mosca che si è fastidiosamente appoggiata sul proprio naso. D’ altra parte come è possibile dare un senso alla morte per degli empiristi che sanno considerare solo le esperienze? Della morte non c’ è esperienza: l’ uomo la «conosce» solo quando egli non esiste più. La digital generation sembra non tenere conto della morte, non pensarci nemmeno quando uno ammazza una persona o se stesso. Si uccide per togliere un ostacolo. Ogni concezione della morte è il risultato di un procedere della mente astratto e proiettato nel tempo fino all’ eterno. Tutto questo lo abbiamo visto, non è più parte del procedere della mente delle nuove generazioni. Se non si capisce il significato della morte, non è possibile nemmeno cogliere il dramma di chi la teme, di quanti se la sentono attaccata addosso. E chi ne parla in un piano educativo constata di non venire nemmeno percepito, eppure questo è un tema necessario nel campo dell’ educazione, che noi abbiamo definito «insegnare a vivere». Queste note comportamentali degli adolescenti del tempo presente sono una premessa a riprendere il tema dell’ educazione in famiglia e a scuola, con grande impegno e motivazioni poiché crescere appare per la digital generation veramente faticoso. Il mio compito si ferma alla descrizione del mondo adolescenziale dal punto di vista del funzionamento della mente e dei comportamenti, per lasciare alle famiglie e alla scuola i loro compiti specifici e insostituibili.
Vuoi conoscere una selezione delle nostre notizie?
Torna in alto