di Maria Vittoria De Matteis
“Solo 50 anni fa eravamo una società di produttori e adesso non lo siamo più: ora la nostra identità passa dal nostro ruolo di consumatori. Quando c’è una crisi economica i nostri leader ci informano che potremo uscire dalla depressione grazie all’attività di noi consumatori. Dai cittadini non si pretende più che contribuiscano alla formazione delle leggi: adesso si pretende che cerchiamo le soluzioni nei negozi. E per chi non ce la fa a consumare sempre di più, viene tracciata la linea della ‘povertà relativa’ nel punto in cui le persone non ce la fanno a compiere il proprio dovere. E in questo caso si diventa dei consumatori…imperfetti”. (Zygmunt Bauman, uno dei principali analisti della vita collettiva contemporanea). Le persone oggi vengono valutate, secondo il sociologo, in base ai loro livelli di consumo. E i poveri, cessando così di essere considerati come un potenziale produttivo, sono esclusi in quanto «sottoconsumatori». Ciò crea nuovi rapporti interpersonali con diverse conseguenze per la vita collettiva e l’organizzazione delle politiche sociali. Il graduale ma inesorabile transito dalla prima alla seconda fase della società moderna, ovvero dalla società dei produttori a quella dei consumatori, fa passare da un mondo guidato dall’etica del lavoro a uno basato sull’estetica del consumo.
Ma tra economia che cresce e beni che si esauriscono, su cosa si basa uno Stato per sapere quanto è ricco? C’è chi suggerisce di affiancare al Pil altri indicatori, come quelli che registrano la qualità della vita nelle regioni, prendendo in considerazione vari livelli relativi a diverse aree, dalla salute, all’ambiente, dal lavoro, alla partecipazione, alle pari opportunità. Segnalando meglio come si vive in Italia e qual è il grado di benessere di questo Paese, regione per regione. In quest’ottica meno miope, è il Trentino a risultare -per le sue politiche ambientali- una regione particolarmente virtuosa.
Sempre in quest’ottica, in Lombardia -per esempio- manca una relazione diretta tra produzione di Pil e benessere per il suo alto tasso di inquinanti nei capoluoghi di provincia (8 la media nazionale, 13 nella città di Brescia, 15 a Milano). “Viaggiando da sud ovest verso Milano, si vedono paesi agganciati gli uni con gli altri. Proseguendo verso nord est, il tasso di urbanizzazione della Brianza è tra il 76 e l’87%: i limiti di urbanizzazione devono essere al massimo tra il 55 e il 60%. La disponibilità delle aree pedonali risulta essere di m 2 per 100 abitanti (33,9 la media nazionale, 13,7 nella provincia di Lecco, 3,3 in quella di Bergamo). Scomparso completamente il marciapiede, è sparito il pedone, che non è più un cittadino, non è più padrone dello spazio urbano, ma è una sorta di parassita, qualcosa che serve per far funzionare la macchina urbana. Altri paesi avanzano per diventare praticamente una sola città e i centri commerciali a cucire i nuovi territori” (Fabrizio Bottini, urbanista Politecnico di Milano).
Metafora del passaggio da cittadino a consumatore, questo spazio è organizzato attorno all’automobile: l’automobile contiene solo un ‘vettore di una carta di credito’. Ma se si mandano in fallimento gli ecosistemi sui quali poggia la vita, non ci sarà un altro luogo dove poter vivere. Mancando spazi di aggregazione sociale come piazze, viali e giardini pubblici, ogni luogo si spersonalizza.
Due premi Nobel, Joseph Stiglitz e Amartya Sen, sono arrivati alla conclusione che il Pil da solo non basti a raccontare la dimensione della ricchezza, raccomandandosi –innanzitutto– di sottrarre alla crescita del Pil il danno ambientale. Anche il presidente della Commissione Europea Josè Manuel Durào Barroso è disposto ad ammettere che ci sia qualcosa che non va nell’utilizzare solo quell’unico indicatore per regolare le nostre vite, proponendo di “andare oltre il Pil” (si chiama così il piano elaborato dalla Commissione Europea).
Ma si concilierebbe con i Trattati dell’Unione dove si parla di mercati in competizione? Per alcuni ricercatori potrebbe non esserci bisogno di cambiare i trattati. In quello di Lisbona c’è una lista degli scopi dell’Unione Europea: la crescita economica, la stabilità dei prezzi, l’alta occupazione, la competitività, la coesione sociale, la diminuzione della pressione sull’ambiente. Per altri esperti, invece, è impossibile la coesistenza degli indicatori di benessere europei e il Pil, perchè non si possono trovare nuovi parametri per valutare l’attività produttiva se al centro rimane l’impresa e il mercato, in quanto queste hanno al centro il profitto e la concorrenza.
Nella storia delle Costituzioni i diritti delle persone sono sempre stati centrali, quella europea che fa riferimento al Trattato di Lisbona, parte dal fatto che l’Ue è un’unione di mercati, quindi il mercato è un collante, e per la prima volta questa parola la troviamo scritta in una Costituzione.
Anche il presidente della Repubblica francese Nicolas Sarkozy dice che bisogna andare oltre il Pil, ma rimanendo dentro ad un modello dove tutte le componenti sono in competizione, quindi qualcuno e qualcosa bisogna sacrificare. Ma i modelli non sono stabili e nulla è dato per sempre. Da qualche parte, in Europa, stanno nascendo belle realtà. Che dimostrano che il mercato è un buon indicatore, ma non può essere l’unico metro di giudizio.
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