BACK RESHORING ITALIA –
Quando qualche giorno fa ha presentato i dati del bilancio 2014, oltre 2 miliardi di euro di fatturato, Ramesh Tainwaia, ceo di Samsonite, ha spiazzato i giornalisti con un annuncio: «Vogliamo portare alcune produzioni in Italia, dove per il momento abbiamo solo il design. Il made in Italy è un vero marchio che può creare valore aggiunto sui nostri prodotti». Una buona notizia per un Paese dove, secondo gli ultimi dati dell’Istat, le fabbriche girano al 60 per cento del loro potenziale, segno di un ripresa lenta, molto lenta. E la conferma di un fenomeno che sta modificando la geografia della nostra industria: il back reshoring, la ricollocazione degli stabilimenti, ovvero il ritorno a casa. Siamo usciti dal tunnel della fuga all’estero, con aziende in fila per spostare le produzioni in Cina, nel Sudest asiatico, e nell’Europa dell’est, a caccia di bassi costi della manodopera, e siamo entrati nell’era della riscoperta della fabbrica. E perfino delle company town, gli agglomerati urbani costruiti attorno a un’industria e al suo indotto, simbolo del boom economico. Sono quasi 100 le aziende che hanno fatto marcia indietro, alla faccia di mister David Cameron, fresco vincitore delle elezioni in Gran Bretagna, che sogna di fare dell’Inghilterra «la patria del back reshoring». Al momento questo primato all’interno dell’Unione europea spetta a noi, e siamo solo all’inizio del nuovo ciclo. «In realtà i rientri sono molti di più di quelli che abbiamo censito, perché ci sono importanti marchi del made in Italy che preferiscono non comunicare le nuove localizzazioni in Italia perché altrimenti dovrebbero raccontare perché e dove hanno prodotto finora. Sono ritorni sommersi, una vera onda lunga di riscoperta della manifattura di qualità» spiega Luciano Fratocchi, docente di Ingegneria economica-gestionale, uno dei fondatori del consorzio Uni-Club More Back Reshoring, che vede insieme a monitorare la nuova tendenza le università di Modena, Reggio Emilia, L’Aquila, Bologna, Catania e Udine.
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AZIENDE CHE TORNANO IN ITALIA –
Ovviamente l’epicentro dei rientri è il Nord Est, e in particolare il Veneto, cioè la regione che più era stata coinvolta nel processo di delocalizzazione industriale, ma il vento soffia nella stessa direzione dal Friuli Venezia Giulia alla Sicilia e investe in particolare un settore, la moda, dove eravamo arrivati a 4 capi su 10 prodotti all’estero. Chi torna? In prima fila ci sono grandi marchi del fashion di gamma alta, da Prada e Ferragamo, da Furla a Gta Moda, ma alle loro spalle compaiono anche importanti aziende meccaniche, dalla Global Garden Products alla Beghelli, e nomi di rango del settore alimentare come il Tonno Asdomar. Le scelte strategiche in alcuni casi sono radicali: la Fiamm, leader europeo nelle batterie per auto, ha chiuso la sua fabbrica nella Repubblica Ceca e l’ha riaperta ad Avezzano; la Aku, società veneta che produce scarponi da montagna, ha smontato lo stabilimento a Cluj, in Romania, e lo ha rimesso nel cuore del distretto di Montebelluna.
VANTAGGI BACK RESHORING –
Le aziende non fanno beneficenza, e nella spinta al back reshoring il motore che si è acceso si chiama convenienza, e quindi la possibilità di fare utili migliori e conquistare nuove quote di mercato, proprio come spera di fare l’amministratore delegato di Samsonite. Infatti la prima motivazione alla base delle cento aziende censite dal consorzio universitario è l’effetto made in Italy. Poiché la competizione globale si gioca sulla fascia alta del mercato, che significa una garanzia di qualità, i gruppi della moda, per esempio, tornano alle certezza del buon prodotto con marchio italiano, un elemento molto seducente per i consumatori. «Si è capito che la domanda del mercato più evoluto, quello dove ci sono i maggiori spazi di crescita, è orientata in modo determinante dalla conoscenza del luogo di provenienza del prodotto. E un qualsiasi articolo fatto in Italia può essere venduto a prezzi più alti, perché rassicura il cliente sul piano della qualità» spiega Frattocchi. Al contrario, un capo realizzato in Cina, o in Romania, è sempre a rischio rispetto alla sua qualità, per non parlare delle materie prime che spingono i prodotti cinesi nella fascia bassa del mercato, dove il made in Italy non è più competitivo da molti anni. Sul back reshoring pesano poi altri fattori, come per esempio i servizi offerti al cliente. Anche in questo caso è la convenienza che ha rovesciato il paradigma della delocalizzazione: produrre in Italia significa essere più vicini alle richieste dei consumatori che chiedono garanzie, per esempio, sulla tempestività dei rifornimenti quando un articolo ha successo. Infine, il vantaggio dei differenziali del costo del lavoro si è andato riducendo in questi anni, e anche in Cina come negli ex paesi comunisti, le rivendicazioni sindacali hanno portato a una lievitazione dei salari, e la curva è solo all’inizio della sua prevedibile impennata. Ci farebbe piacere poter aggiungere, in questo elenco di fattori che spiegano il back reshoring, anche un clima di maggiore benevolenza, e di fiducia, nei confronti dell’Italia. Ma questo è ancora presto per vedersi all’orizzonte, e qualsiasi imprenditore, dal più grande al più piccolo, vi ripeterà sempre lo stesso concetto: tutto ciò che rende meno difficile fare industria in Italia, a partire dai macigni della pressione fiscale e della burocrazia, aiuta il ritorno degli investimenti e delle fabbriche. E a quel punto è molto probabile che la ripresa sarà finalmente più solida.
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