Giuseppe Remuzzi
L’epidemia di gastroenterite e danno renale che ha colpito soprattutto il Nord della Germania ma anche Svezia, Danimarca, Olanda e Francia è dovuta a un batterio della famiglia degli Escherichia coli. Producono tutti la stessa tossina, ma la tossina da sola non basta. I medici la chiamano «verotossina» perché in laboratorio infetta cellule renali (chiamate «vero cells») di scimmia in coltura. Ma la tossina da sola non basta. Ci sono fattori legati al ceppo batterico che contribuiscono alla sua capacità di danneggiare organi e tessuti. Certi ceppi per esempio nell’intestino dell’uomo si moltiplicano più facilmente di altri e hanno un corredo genico particolare che gli consente di aderire alla mucosa dell’intestino meglio di altri. In questo modo fanno più danno non solo lì ma poi anche al rene, al cuore, al pancreas e al cervello.
L’imprevedibilità
Il ceppo di E. coli, di quelli che producono «verotossina» più comune, l’hanno chiamato 0157. Ce ne sono però tanti altri, ciascuno ha la sua sigla 026, 0145, 0111 (che è diventato famoso da noi per essere stato la causa di una piccola epidemia in Lombardia a metà degli anni 90: si sono ammalati nove bambini, otto hanno avuto bisogno di dialisi, uno è morto) e poi 0121 e altri ancora. Questi Coli ci hanno sempre stupito, anche perché la fonte di contagio è imprevedibile e cambia continuamente. Fino a pochi anni fa per esempio sui libri di medicina si leggeva che la sindrome emolitico uremica era una malattia dei bianchi, tutti pensavano che i neri fossero protetti. Ma nell’ottobre del 1992 nella regione dello Swaziland in Sudafrica migliaia di persone sono state colpite da diarrea emorragica: quasi il 20 per cento di loro ha avuto insufficienza renale e ci sono stati molti morti, tutti neri. Cos’era successo? A causa di una grande siccità, mucche e vitelli morivano di sete e nei campi le carcasse abbandonate si infettavano facilmente. Seguirono delle piogge molto violente che trascinarono le carcasse nei fiumi e così vennero contaminate le acque superficiali. Quelli che erano lì a lavorare nei campi bevevano l’acqua e si infettavano. Ricostruire quella vicenda non fu affatto facile, bisognava isolare lo stesso Coli nelle feci di quei lavoratori e poi trovarlo nelle carcasse degli animali morti, poi cercarlo nei fiumi e ancora nelle acque superficiali, servivano anche studi genetici piuttosto sofisticati. Quella volta ci si è riusciti abbastanza in fretta.
Il caso giapponese
In Giappone invece a metà degli anni 90 è stato tutto più difficile. A Sakay nel giro di due giorni, fra il 12 e il 14 luglio del 1996, si ammalano più di 6.000 bambini, 629 finiscono in ospedale, 68 – e c’erano anche due coppie di gemelli – devono ricorrere alla dialisi, 4 muoiono. Nessuno capisce perché, partono inchieste di ogni tipo, si pensa alla carne prima poi al latte «ma no, il latte non può essere, è sempre pastorizzato», verdura forse ma perché? Sospetti, accuse, le solite cose, i vertici degli istituti di sorveglianza alimentare in tribunale, il ministro della Salute a casa. Finché dopo tanto tempo salta fuori che il contagio parte dall’Oregon negli Stati Uniti. Il Giappone importava da là semi per coltivare certe radici che poi erano parte dell’alimentazione dei bambini nelle scuole. Era implicato l’E. coli 0157, il più diffuso e anche quello che conosciamo meglio. In tutto l’infezione ha colpito 9 mila persone ma i danni sono stati abbastanza contenuti.
La novità
Si sa davvero poco del ceppo 0104: H4, quello di questi giorni, non è mai stato responsabile di nessuna epidemia. Questo forse spiega anche perché 0104 colpisce gli adulti: non l’hanno mai visto prima e non hanno anticorpi (è un po’ quello che succede a i bambini con gli altri ceppi di Coli). E non basta: 0104 provoca una malattia più grave, tantoché più della metà di quelli che si infettano ha un danno renale; è molto di più di quello che succede con gli altri ceppi. Forse non è nemmeno tutta colpa del Coli 0104, potrebbe esserci una combinazione genetica con un altro batterio a spiegare la «supertossicità».
Di più per adesso non si può dire e sarà bene parlare della fonte del contagio quando lo si saprà con certezza, ammesso di arrivarci, e non è detto che sia facile. Chi avrebbe mai pensato in Giappone ai semi dell’Oregon? I cetrioli dell’Andalusia non c’entravano, «la Germania si scusa» titola El Pais ma intanto le tante persone che vivono grazie all’industria della verdura sono in grande difficoltà. La Spagna per il falso allarme perde centinaia di milioni di euro alla settimana. Nessuno dovrebbe contribuire ad aggiungere altri problemi a questo che è certamente uno grave (si tratta della terza epidemia di Coli dopo quelle del Giappone e del Canada per diffusione ed è la prima per gravità). In attesa di sapere la fonte di infezione laviamoci sempre bene le mani e facciamo grande attenzione in cucina. I consigli sono sempre quelli e le cose da fare sono anche molto semplici.
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