C’è un giallo sui soldi per la bonifica dei quartieri più a rischio inquinamento nella zona dell’Ilva di Taranto. Un giallo che la dice lunga sulle responsabilità non solo dell’azienda, ma anche delle amministrazioni locali sul disastro che si sta consumando attorno a uno degli snodi strategici dell’Italia industriale.
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Siamo nel lontano 2003 (tredici anni fa!) quando la giunta regionale pugliese, all’epoca presieduta da Raffaele Fitto del Pdl, sottoscrive con il comune e la provincia di Taranto un protocollo d’intesa con “provvedimenti urgenti” per risanare i quartieri tarantini limitrofi all’acciaieria.
Sul tavolo ci sono circa 50 milioni di euro, soldi certi, perché già stanziati dal Cipe, soldi che dovevano servire per costruire una grande barriera sulla quale piantare alberi e separare così le case oggi appoggiate ai depositi minerali dell’Ilva e liberarle dalle polveri nocive dello stabilimento. Passano quattro anni prima di arrivare a un bando di gara per l’appalto dei lavori, e intanto poiché non è stata presentato un progetto esecutivo i soldi del Cipe scompaiono. Sospesi. Riappaiono qualche mese, con la giunta regionale di Nichi Vendola che pensa bene di annullare il piano di risanamento a Taranto e destinare le risorse del Cipe ad altri progetti già approvati.
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I soldi per combattere l’inquinamento all’Ilva ed aiutare la popolazione residente in quella zona vengono così dirottati ad attività culturali, a qualche università della regione, a interventi di difesa del suolo e alla manutenzione degli organi antichi nelle chiese. Tutto tranne l’obiettivo per il quale erano stati stanziati. Sarà stato anche utile e necessario sistemare gli organi delle chiese, ma quei soldi erano dei tarantini soffocati dall’Ilva: chi e quando li restituirà?
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