Il caffè prodotto sfruttando donne e bambini

La macchia nera e insostenibile del prodotto più commercializzato al mondo, dopo il petrolio. Il 44 per cento dei lavoratori del caffè vivono in povertà, il 22 per cento in povertà assoluta

Il caffè prodotto sfruttando donne e bambini

Il prezzo del caffè va sempre più in alto: in un solo anno, nel 2024, è aumentato del 70 per cento rispetto ai 12 mesi precedenti. E ormai si parla di una tazzina al bar a 2 euro. Ma di questi aumenti nulla va in tasca ai lavoratori delle piantagioni di caffè, sparse in paesi dove lo sfruttamento della manodopera è all’ordine del giorno.

I più grandi marchi del caffè in Italia e nel mondo, da Lavazza a Illy, da Starbucks a Nespresso, non fanno altro che auto-celebrare la loro presunta sostenibilità. Ma, a parte i problemi della deforestazione legata allo sfruttamento intensivo delle piantagioni, l’industria del caffè resta macchiata da un gigantesco neo: lo sfruttamento della manodopera, sul quale le aziende che poi trasformano il caffè chiudono entrambi gli occhi. E non pagare il lavoro in modo equo, direttamente o indirettamente, è quanto di meno sostenibile possa esistere.

Le statistiche ufficiali parlano chiaro: i due terzi dei chicchi di caffè dai quali poi si ricavano l’espresso e il decaffeinato che beviamo ogni giorno, provengono da coltivatori in difficoltà. Il 44 per cento di loro vive in povertà, il 22 per cento in povertà estrema. Dall’Etiopia al Brasile, dal Messico al Guatemala, nessun paese dove è possibile sfruttare la manodopera nelle piantagioni, specie donne e bambini, sfugge a questo meccanismo. E ovunque si coltiva il caffè, il lato oscuro della sua raccolta è ben protetto.

I bambini guadagnano come le donne, 2 euro e mezzo al giorno per il lavoro nelle aziende di caffè. Un contadino etiope dalla vendita del suo caffè ricava circa 60 dollari l’anno, mentre nel 1998 ne guadagnava 320. Secondo le ong in Guatemala quasi 1 milione di bambini tra i 5 e i 14 anni lavora nelle piantagioni di caffè. Secondo il Ministero del lavoro invece sono ‘solo’ 850mila, il 70% dei quali nelle aree rurali del Paese.

Ovviamente i grandi marchi del caffè tendono a prendere le distanze, in modo pilatesco, da questo sfruttamento, dicendo di essere all’oscuro di specifici casi di sfruttamento. La verità è che le uniche forme di resistenza e di lotta a un meccanismo infernale, fuori controllo anche per effetto della globalizzazione del mercato del caffè, il prodotto più commercializzato al mondo dopo il petrolio, arrivano da alcune associazioni e Ong e dalla organizzazioni per il commercio equo. Troppo poco per fermare l’onda lunga dello sfruttamento.

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Foto apertura di Michael Burrows via Pexels

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