Michele Salvati www.fondfranceschi.it/cogito-ergo-sum
Sulla stampa anglosassone si fanno sempre più frequenti le voci di allarme sul futuro del capitalismo e in particolare sul difficile rapporto tra capitalismo e democrazia. Capitalismo, non economia di mercato o altri eufemismi. Americani e inglesi, di destra o di sinistra, non hanno i nostri pudori e danno alla cosa il suo nome, quello che Karl Marx ha contribuito a diffondere e al quale ha eretto quello straordinario monumento che è Il Capitale. Spesso quelle voci prendono spunto da manifestazioni di indignazione e di rivolta contro aspetti penosi e offensivi della situazione economica e sociale com’è percepita in singoli contesti nazionali: nei Paesi anglosassoni ciò che provoca il maggior risentimento è l’impressionante alterazione nella distribuzione del reddito degli ultimi trent’anni, il contrasto tra le condizioni di vita stazionarie del ceto medio e lo stratosferico incremento nei redditi dell’1 per cento più ricco della popolazione. Possibile che la democrazia, il «governo del popolo» (dunque del 99 per cento, come gridavano gli slogan dei dimostranti a Wall Street o a Zuccotti Park), non riesca a invertire queste tendenze? Che cosa c’è di malato in questa forma di governo, se ciò non avviene?
Sulle fluttuazioni nella distribuzione del reddito, sulle fasi di benessere o malessere che la gran parte delle popolazioni dei Paesi capitalistici ha attraversato nel dopoguerra, sulle ragioni per cui la democrazia non è riuscita ad assicurare al ceto medio le condizioni di vita decorose e stabili dei «trent’anni gloriosi» tra il 1950 e il 1980, la letteratura è sterminata e qui mi limito a segnalare due libri che ne trattano in modo semplice e illuminante: Ricchezza e democrazia, di Kevin Phillips (Garzanti, 2005), e Aftershock, di Robert Reich (Fazi, 2011). Vorrei invece accennare a un problema che sta a monte della distribuzione del reddito in singoli Paesi e spiega perché le singole democrazie nazionali e le organizzazioni politiche internazionali fanno fatica ad addomesticare un animale selvaggio com’è il capitalismo mondiale.
Il capitalismo è una straordinaria fonte di innovazione e di ricchezza; ma è anche la causa di grandi sofferenze, del degrado di intere comunità, della rottura di assetti sociali e modi di vita cui ci si era assuefatti. Per restare a casa nostra, si pensi a quel che è avvenuto a Prato, mirabilmente e ingenuamente descritto nel libro di Edoardo Nesi, Storia della mia gente. O si pensi a quel che in parte è avvenuto, e in parte maggiore può avvenire, se avrà corso la strategia di Marchionne. A livello mondiale tutto questo avviene in migliaia di comunità, per milioni di persone. Ma per un numero ancor maggiore di comunità e di persone l’esperienza è opposta, perché il gioco non è a somma zero: Prato langue, ma le imprese cinesi prosperano; Termini Imerese chiude, ma Detroit e Belo Horizonte si espandono. Più fondamentalmente: è la grande esperienza dell’uscita dalla miseria cui i modi di produzione tradizionali costringevano Paesi non ancora inseriti nel capitalismo mondiale, dell’eliminazione dell’idiozia rurale che a quella miseria si accompagna, avrebbe detto il vecchio Marx. E tutti questi sconvolgimenti avvengono quando le cose vanno bene, quando «il vento di bufera della distruzione creatrice», come Schumpeter ha mirabilmente definito il processo di sviluppo capitalistico, soffia nella sua fase ascendente. Ma è carattere proprio di questo processo anche quello di dare luogo, periodicamente, a crisi devastanti, in cui il gioco diventa a somma pesantemente negativa e i costi collettivi superano di gran lunga i vantaggi: è timore diffuso, speriamo infondato, che il capitalismo sia alle soglie di una di queste crisi.
I costi dello sviluppo capitalistico mondiale possono essere attenuati, se non evitati? E, soprattutto, possono essere impedite depressioni devastanti dell’attività economica? La mia risposta è: sì, ma è molto difficile, perché le forze che sprigionano questi effetti sono immense e i modi di cui disponiamo per controllarle — la politica, la democrazia — sono deboli.
Tornerò ad argomentare questa mia convinzione in un altro articolo e per ora concludo con una metafora, con un parallelo tratto dalla fisica e che dà un’idea della sproporzione di forze e della difficoltà del compito. Tutti sanno, persino un modesto economista, che se potessimo controllare il processo di fusione nucleare avremmo risolto per sempre, e in modo non inquinante, il problema energetico che assilla il pianeta. La difficoltà è che il calore sprigionato dalla fusione — è quello del sole — è enorme e che i modi che i fisici stanno sperimentando per ingabbiarlo e utilizzarlo per la produzione di energia — campi magnetici, mi sembra di aver capito — si sono sinora rivelati inadatti al compito.
La metafora è evidente: il calore prodotto dalla fusione è il capitalismo e i campi magnetici di controllo sono le politiche nazionali e internazionali con le quali si cerca di addomesticarlo. I fisici non disperano di trovare una soluzione al loro problema. Forse una soluzione politica (… e democratica?) non è impossibile per l’addomesticamento del capitalismo. Per trent’anni, dopo la guerra, ci si è riusciti. Perché non ora?
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