Chi protegge le province che non si toccano

Sergio Rizzo Dalla manovra che ci imporrà sacrifici micidiali sono miracolosamente evaporati i tagli «epocali», come li aveva definiti in prima pagina la Padania il 14 agosto, ai costi della politica. Compreso quello a parole più gettonato: l’eliminazione delle Province. «Sono tutte inutili e fonte di costi per i cittadini, pacifico che debbano essere abolite», […]

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Sergio Rizzo

Dalla manovra che ci imporrà sacrifici micidiali sono miracolosamente evaporati i tagli «epocali», come li aveva definiti in prima pagina la Padania il 14 agosto, ai costi della politica. Compreso quello a parole più gettonato: l’eliminazione delle Province.
«Sono tutte inutili e fonte di costi per i cittadini, pacifico che debbano essere abolite», prometteva Silvio Berlusconi il 5 marzo 2008, giurando che oltre all’Ici e al bollo auto avrebbe spazzato via anche quelle. Nella frenesia della campagna elettorale nessuno ricordò la confessione pubblica resa dal Cavaliere a Rovigo appena cinque mesi prima: «Eliminare le Province in Italia non lo potrà mai fare nessuno». A parte un dettaglio evidentemente trascurabile per i nostri politici, cioè la coerenza, mai profezia è stata più azzeccata. Le Province sono sopravvissute alla «riforma» federale. Quindi al «codice delle autonomie» che ammuffisce in Senato. Infine alla manovra economica più drammatica dal tempo in cui il governo di Giuliano Amato evitò la crisi finanziaria entrando nella carne viva dei contribuenti.
Ma che nessuno avesse mai preso in esame l’idea di fare sul serio era evidente. La prova? Non più tardi del 27 maggio il decreto sul federalismo fiscale ha dato alle Province il potere di portare fino al 16% l’imposta del 12,5% sulla Rc auto che finisce nelle loro casse. E, senza farsi troppo pregare, ventinove di esse ne avevano già approfittato il primo agosto. Mentre dunque nel Palazzo qualcuno stava meditando di annunciarne l’abolizione, loro ingrassavano aumentandoci le tasse. Con la certezza che le nubi nere all’orizzonte si sarebbero presto dissolte. E i fatti gli hanno dato ragione.
Il 13 agosto il ministro Roberto Calderoli si presentava in sala stampa a Palazzo Chigi comunicando al Paese che sarebbero sparite «tra 29 e 35 Province». L’8 settembre benediceva trionfalmente la retromarcia, decretandola «evoluzione federalista dell’ordinamento». Che genere di evoluzione, è presto detto. Stralciato dalla manovra che costringe tutti i cittadini a tirare la cinghia già da oggi, il capitolo delle Province è stato rinviato a un disegno di legge costituzionale, nel quale però quegli enti non saranno affatto eliminati. Passando dalla competenza dello Stato a quella delle Regioni, «evolveranno» semplicemente cambiando nome. Le chiameranno «Province regionali», «Aree vaste», o in qualche modo ancora più stravagante? Poco importa: potete stare certi che resteranno in vita. Una presa in giro, questa sì, davvero «epocale». Nel segno del Gattopardo.
«Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi», dice il nobile siciliano Tancredi Falconeri nel celebre romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Ed è una regola, paradossale per questa maggioranza a trazione nordista, che funziona a puntino. Un altro esempio? Nelle stesse ore in cui la Camera approvava la manovra che liberalizza alcune professioni, il Senato discuteva una proposta di legge del centrodestra per istituire cinque nuovi ordini e venti albi: dietisti, podologi, igienisti dentali… Il prezzo di tutto questo? La credibilità. Meglio: le briciole che ne restano.

 

 

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