CONFERENZA DI PARIGI 2015 –
L’incubo si chiama Copenhagen 2009. I rappresentanti di 190 paesi del mondo, riuniti a Parigi per la ventunesima Conferenza mondiale sul clima sotto le bandiere dell’Onu, dovranno riuscire a scacciare i fantasmi del precedente vertice danese che si chiuse con un totale fallimento. E le percentuali di un flop bis non sono poche, nonostante i fiumi di retorica che accompagneranno la sfilata parigina di 152 tra capi di Stato e premier e 25mila delegati di vario livello.
Certo: in sei anni è aumentata la percezione di un potenziale disastro dietro l’angolo. Non c’è bisogno di cedere alla sirene del facile catastrofismo, che non fa bene alla stessa causa ambientale rendendola meno credibile, per rendersi conto di un peggioramento climatico ormai insostenibile. Non è necessario invocare ghiacciai che si sciolgono, isole che scompaiono, barriere coralline che muoiono (tutti fenomeni possibili): basta fare i conti con i nostri stili di vita, le nostre percezioni più banali. I primi 14 anni del nuovo millennio sono stati i più caldi di sempre e il 2015 sarà l’anno record della storia dell’uomo. Punto. Se non intervengono significativi correttivi sulle emessioni di anidride carbonica e di gas serra, gli scienziati calcolano un aumento delle temperature, rispetto alla fine dell’Ottocento e alla prima rivoluzione industriale, tra i 4 e i 5 gradi. Una possibile catastrofe. Tenuto conto che fino a questo momento, nonostante tutti i ritardi nelle decisioni internazionali, l’aumento in un secolo e mezzo è stato inferiore a 1 grado, ovvero 0,85.
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GLI OBIETTIVI DELLA CONFERENZA SUL CLIMA DI PARIGI –
L’obiettivo della Conferenza, anche questo è scolpito nei documenti dei vari sherpa che hanno preparato il vertice, è concordare azioni per ridurre il rischio di innalzamento della temperatura a “soli” 2 gradi, rispetto ai possibili 4 o 5. Come? Intervenendo sulle fonti energetiche. Anche qui, senza facili illusioni e senza demagogia: già sappiamo che il petrolio non scomparirà, come annunciano con giubilo i soliti catastrofisti di maniera, ma al contrario continuerà ad essere vitale per l’intera umanità. Ancora nel 2030, questo dicono le previsioni scientifiche, i due terzi dei rifornimenti energetici avverrà da fonti fossili, mentre solare ed eolico, insieme, non potranno valere più del 6 per cento del totale.
I GRANDI PAESI INQUINATORI DEL MONDO –
Per ridurre le emissioni di gas serra, con traguardi ragionevoli e realistici, non si può non trovare un accordo tra i grandi paesi inquinatori del mondo, ovvero Cina, Stati Uniti e India. La Cina, per capire la sua crescita in questo fronte dei cattivi, fino al 1995 produceva 2,8 tonnellate di CO2 pro capite, adesso siamo a 6,7. E il governo di Pechino ha appena approvato il nuovo piano quinquennale nel quale la lotta all’inquinamento è considerata prioritaria, ma sempre dopo un vigoroso rilancio dell’economia e senza alcun impegno vincolante che possa penalizzare l’industria nazionale. Tanto che l’unico impegno autentico finora preso dalla Cina è quello di non aumentare più le emissioni nocive dal 2030. Tra quindici anni. L’India, a sua volta, fa ancora peggio ed è il grande assente al vertice di Parigi. Per il semplice motivo che non ha alcuna intenzione di rivedere la sua politica energetica, incentrata sul carbone, una delle fonti energetiche più inquinanti. Sommando le percentuali di emissioni riconducibili alla Cina (23,2 per cento del totale) e all’India (6,3 per cento), siamo già a un terzo del totale che si sfila dal tavolo.
IL RUOLO DEGLI STATI UNITI –
Quanto agli Stati Uniti (12,6 per cento delle emissioni), Barack Obama aveva fatto sognare tutti gli ambientalisti americani che lo consideravano il primo presidente green della storia. Siamo vicini alla fine del secondo mandato, e su questo versante possiamo considerare fallimentare la politica di Obama. Detto in una parola, in questi anni non ha toccato palla, anche perché non ha mai avuto la maggioranza del Congresso, controllato dai repubblicani, e l’unico risultato concreto che può vantare è il veto messo per bloccare il maxi-oleodotto in Canada tanto gradito alla lobby dei petrolieri. Poco, troppo poco. A Parigi, Obama si farà sentire, e questo potrebbe riservarci qualche sorpresa: ma qualsiasi decisione che firmerà, avrà un valore relativo, in quanto per lui si avvicina il “semestre bianco” e la politica energetica e ambientale americana sono ormai nell’agenda del nuovo presidente che non entrerà alla Casa Bianca prima del gennaio 2017.
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IL RUOLO DELL’EUROPA –
Infine, l’Europa. Il Vecchio Continente ha fatto passi avanti importanti, sebbene conti solo il 10 per cento delle emissioni globali, e riusciremo a tagliarle del 27 per cento entro il 2020. Il traguardo però è stato raggiunto a un prezzo altissimo: incentivi pubblici molto generosi per le rinnovabili, pagati dalle bollette di consumatori e aziende, che ancora oggi hanno costi di rifornimento energetico pari al 30 per cento in più rispetto alle concorrenti americane. Gli incentivi, che pure servono in quanto le rinnovabili non sono ancora profittevoli, hanno portato al paradosso che in molti paesi europei si è tornati al carbone, ovvero il materiale più inquinante. E la Francia ha già messo le mani avanti rispetto alle conclusioni di Parigi: non firmerà alcun accordo vincolante e ribadirà la sua ferrea volontà di avere le mani libere per la sua politica energetica. Ma fin quando l’Unione non avrà una sola politica energetica, sarà impossibile non presentarsi divisi, e quindi con minore potere negoziale, ai vertici internazionali come quello di Parigi.
COSA DOBBIAMO ASPETTARCI DALLA CONFERENZA DI PARIGI? –
Di fronte a questo scenario che cosa aspettarci dal summit che si apre oggi? Manteniamo l’ottimismo della volontà, e teniamo presente che avranno il loro peso alcuni possibili danni dalla mancanza di interventi per ridurre il surriscaladamento globale: si parla di 250 milioni di nuovi migranti per fattori climatici, di 400 milioni di persone a rischio indondazioni, e di una riduzione delle produzione agricola, laddove per effetto dell’aumento della popolazione mondiale avremo bisogno di più cibo, del 2 per cento. La geopolitica avverte i potenti di Parigi, con il segnale rosso dell’allarme, che serve un accordo e una svolta. Così come è indispensabile aprire il portaoglio e tirare fuori i 100 miliardi di dollari l’anno che servono ai paesi emergenti per modificare i loro disequilibri energetici. La razionalità però ci porta a ricordare che se anche si riuscisse a trovare un’intesa che rilanci in modo convinto la riduzione di emissioni in tutto il mondo, sarà sempre molto fragile. Nessuno, al momento, dei grandi protagonisti dei vertici climatici dell’Onu vuole dare ad evenutali intese il rango di un Trattato (dunque vincolante), con relative sanzioni. Al massimo, sentiremo la recitazione di buone intenzioni. Augurandoci che i 25mila delegati non ne approfittino, come al solito in questi lunghi vertici (le riunioni di Parigi duerranno ben due settimane), per pagare, a spese dell’Onu, conti stellari in alberghi di super lusso e in ristoranti con cene a base di caviale e champagne. Sarebbe la beffa dopo il danno.
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