Il fenomeno è stato scoperto 2.500 anni fa, da personaggi entrati nella storia come Ippocrate e Tucidide. Entrambi cercarono di dare una risposta certa sul piano scientifico a ciò che già allora era evidente: la maggiore frequenza delle malattie infettive in alcune stagioni dell’anno. Sono passati secoli, scienziati ed esperti continuano a studiare il fenomeno, e non sempre arrivano a conclusioni definitive. E la stagionalità dei virus resta un enigma con alcune risposte che però adesso siamo in grado di fornire.
CORONAVIRUS E ARRIVO DEL CALDO ESTIVO
Il problema è di enorme attualità, dopo la comparsa del Covid-19, e non solo per le aspettative che abbiamo sia in termini di calo dei rischi sia per la ripresa di una vita davvero normale. Sapere se la pandemia del Covid-19 regredirà con l’arrivo del caldo, significa anche attrezzarsi al meglio per eventuali ricadute e potrebbe contribuire alla scoperta che più attendiamo. Come si previene e come si cura il coronavirus.
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L’ARRIVO DEL CALDO BLOCCA IL CORONAVIRUS?
Ma vediamo nei particolari quali sono gli effetti di segno positivo, consideriamoli anche delle speranze su basi scientifiche in via di verifica, che si registrano, rispetto alla diffusione del Covid-19 con l’arrivo del caldo.
I virus amano il freddo e il clima secco. Questo è sicuro, tanto che quando abbiamo la febbre la temperatura si alza anche per bloccare la loro replicazione e in generale al di sopra dei 21 gradi i microbi diventano, in modo progressivo, meno attivi. I virus respiratori. come il CoV-2, sono stagionali, e quelli che causano il raffreddore se la cavano molto meglio con le temperature basse, l’umidità e il freddo. L’epidemia della Sars (che risale al 2002), sorella maggiore dell’attuale pandemia, comparve nel mese di novembre, sempre in Cina, in un inverno molto secco, per poi contenersi alla fine di aprile dell’anno successivo e andare a scomparire nel mese di luglio. Il film si ripeterà con il coronavirus? Nessuno ha la certezza, ma le speranze degli esperti, impegnati negli studi per approfondire gli indizi a favore del caldo, vanno in questa direzione.
Effetto luce. Tra questi studi, la rivista Science ne sottolinea uno attualismo e portato avanti dall’equipe diretta dall’ecologa delle malattie infettive Micaela Martinez, della Columbia University. Premesso che il nostro organismo con il caldo si difende meglio dalle infezioni delle vie aeree (il coronavirus appartiene a questa specie), la Martinez sta concentrando il suo lavoro su una teoria molto interessante. La seguente: il sistema immunitario dell’uomo cambia con il ciclo delle stagioni, e diventa più resistente a certe infezioni, per esempio quelle alle vie respiratorie alte, in base a quanta luce riceve il corpo. E con l’allungamento delle giornate la quantità della luce che assorbiamo aumenta in modo netto. Da qui ci sarebbe una vera e propria stagionalità dei virus che la Martinez ha già studiato per anni, pubblicando nel 2018, una preziosa ricerca intitolata Il calendario delle epidemie. Un catalogo di 68 malattie con i relativi e specifici cicli stagionali.
Il fattore umidità. Restando nell’ambito delle ricerche della Columbia university, un’altra pista interessante è quella seguita dal professore Jeffrey Shaman, geofisico del clima, e dal suo team. Ciò che conta ai fini della diffusione del coronavirus sarebbe l’umidità assoluta, ovvero la quantità di vapore acqueo contenuta in un certo volume di aria, e non l’umidità relativa, che invece misura quanto l’aria è vicina alla saturazione. Più è bassa l’umidità assoluta, come avviene in inverno quando l’aria è fredda in quanto contiene meno vapore acqueo, più i virus respiratori come il CoV-2 si diffondono. Al contrano, con l’aumento dell’umidità assoluta, fenomeno tipicamente estivo, il coronavirus dovrebbe arretrare.
Rallentano le goccioline. Ricordiamoci che il coronavirus si trasmette attraverso le famose “goccioline” che partono da uno starnuto o da un colpo di tosse. Da qui il contatto diretto con una persona o attraverso una superficie. I malanni stagionali, che in estate vanno naturalmente a diminuire, sono quindi una piattaforma più larga e più propulsiva in inverno rispetto all’estate. Quanto alle superfici, se sono più calde, riducono il tempo di permanenza e la capacità di trasmissione del virus. Al contrario, nei mesi invernali il muco delle vie aeree è meno fluido e le ciglia che ci proteggono dai microrganismi esterni sono meno mobili.
Le persone si distanziano. Con l’arrivo dei mesi estivi i nostri stili di vita hanno un cambiamento radicale. Innanzitutto usciamo di più all’aria aperti, e frequentiamo molto meno luoghi chiusi. Scuole e università sono chiuse. Dunque, in un colpo solo si riducono i rischi da assembramento, e aumentano le possibilità di stare distanziati. Secondo gli standard di maggiore sicurezza. A proposito di stili di vita, da segnalare in estate anche quello alimentare: a tavola arrivano, attraverso verdura, frutta e pesce, maggiori dosi di vitamina D. Un ottimo scudo rispetto ai virus respiratori.
Il tempo immunizzarsi. Dall’analisi degli indizi, che sommati potremmo considerare quasi una prova, orientati a dimostrare l’equazione più caldo uguale meno coronavirus, dobbiamo sottrarre un possibile indicatore inverso. Spieghiamoci. Se anche il ciclo stagionale, e dunque l’arrivo del caldo, fosse determinante per la ritirata del coronavirus, cosa che tutti ci auguriamo, il primo anno lo schema potrebbe non funzionare. O comunque funzionare solo parzialmente. Il motivo? Non avremmo avuto il tempo di immunizzarci, e allora a una parziale caduta dei contagi in estate potrebbe seguire una ripresa in autunno. Intanto, fidiamoci dell’Organizzazione mondiale della salute che avverte: «Non abbiamo alcun segnale che ci consente di essere certi sulla scomparsa del coronavirus con l’estate».
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