Coronavirus, c’è qualcosa di importante che abbiamo imparato. E ci servirà molto per il futuro

La quarantena ci ha costretto a riscoprire l’altruismo, la civiltà del condominio e la centralità dello Stato. Il patrimonio della sanità pubblica e gratuita. Un possibile passo avanti per le questioni ambientali

cosa ci ha insegnato il coronavirus

COSA CI HA INSEGNATO IL CORONAVIRUS

Non è un elenco consolatorio. Piuttosto uno sguardo lungo, e meno avvilito del solito, sull’uragano coronavirus, su come cambierà la nostra vita, e su quali comportamenti saranno radicalmente modificati. Il tutto partendo da una premessa: gli italiani sono forse il popolo più adattivo del mondo, riescono sempre a dare il meglio nelle crisi e nelle emergenze. Anche se poi di tutto ciò, purtroppo, nei momenti di normalità non resta molto. Ecco: il Covid-19, tra i tanti disastri che ha portato, è riuscito a farci scoprire l’importanza di alcune cose che non dovremmo dimenticare, ma semmai coltivare, nel dopo pandemia. Queste sono le 10 più significative.

La civiltà del condominio. C’è una voce, nel bilancio delle famiglie italiane, sulla quale sicuramente risparmieremo nel corso del 2020, e speriamo anche dopo: la spesa per le liti condominiali. Un totale di 250 milioni di euro all’anno, oltre ai compensi in nero, uno spreco di dimensioni gigantesche. La lunga quarantena ci ha costretto a rivedere la chimica del condominio, a rivalutare quello “stare vicini” che poi significa “stare insieme”, e dunque non sentirsi soli, anche a fronte di tanti, potenziali conflitti. Attraverso la rete condominiale, un tam tam tecnologico e fisico, abbiamo cantato e ballato tutti insieme, anche per rompere il disagio della paura e lo spettro della solitudine.

Teniamo presente che buona parte degli italiani sono condomini e l’85 per cento delle famiglie vive in un palazzo dove abitano altre persone. Dunque la riscoperta di questa civiltà dello stare insieme e della condivisione, magari anche per la necessità di fare arrivare la spesa a un anziano che non può uscire solo di casa durante la pandemia, ci aiuterà molto a riscoprire l’altro, gli altri. A partire dal più prossimo: il vicino di casa.

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La forza dell’altruismo. L’emergenza, in qualsiasi versione, fa venire fuori tutta la potenza dell’altruismo, nel dare qualcosa agli altri senza né chiedere né attendere contropartite. Ma anche nell’essere consapevoli che da soli non ce la può fare nessuno. Lo stesso rispetto delle regole, è una scelta di altruismo: non esco di casa per evitare di fare danni agli altri, e non solo a me stesso.

Se riflettete bene, però, questo concetto, non si applica soltanto in un caso estremo ed immediato come la pandemia da coronavirus. Senza uno sforzo altruistico non ci sarà modo di affrontare la crisi climatica, e in generale il rischio autodistruttivo di un mondo insostenibile. È l’altruismo, declinato poi da decisioni politiche, che potrà ridurre le insopportabili, e insostenibili, distanze economiche e sociali del mondo globale. L’altruismo ci ha salvato, prima e dopo il vaccino, da danni molto più catastrofici del Covid-19, e se ci ritroveremo in questa scoperta anche dopo, e per molto tempo, allora potremo davvero dire che l’utopia individualista (Io, Io, Io), che ha dominato le nostre vite per decenni, ha finalmente ammainato la sua bandiera sulle nostre teste.

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Il patrimonio della Sanità pubblica e universale. In Italia un malato di coronavirus è preso in carico dal Servizio sanitario nazionale e durante tutto il percorso della sua cura, fino alla guarigione, non deve tirare fuori neanche un euro. Negli Stati Uniti, se tutto va bene, chi non una (costosissima) polizza assicurativa, deve mettere in conto una spesa di circa 36mila euro. Potremmo fermarci qui nella descrizione del valore di un patrimonio unico che abbiamo in Italia e, parzialmente, in Europa: il Servizio sanitario nazionale, universale e gratuito. A ciò si aggiunge una qualità media dei medici, degli infermieri e del personale sanitario, più che alta, a fronte di stipendi ridicoli. Teniamocelo stretto questo sistema sanitario, e piuttosto cerchiamo di renderlo omogeneo tra Nord e Sud. Se il coronavirus avesse colpito l’Italia a regioni invertire, una qualsiasi regione del Sud come epicentro al posto della Lombardia, i numeri della tragedia sarebbero stati molto più alti.  Teniamocelo stretto anche dopo il Covid-19, ricordiamoci del valore e della generosità di medici e personale sanitario quando l’emergenza sarà alle spalle, e difendiamolo innanzitutto contrastando qualsiasi forma di spreco in questo settore. Anche il più banale. E sono tanti, troppi. Non è vero che la spesa sanitaria in Italia è stata tagliata, al contrario ha continuato ad aumentare. Ma è vero che i tagli sono stati fatti quasi sempre in modo orizzontale, e non in maniera chirurgica andando a eliminare gli sprechi per investire maggiori risorse dove servivano. Un esempio per tutti: abbiamo tagliato i posti in ospedale nei reparti di rianimazione (sono i più costosi), riducendoli a circa 5mila, un terzo in meno rispetto alla media europea. Con un danno incalcolabile per il sistema sanitario e per la sicurezza della salute dei cittadini. Come si è visto nei giorni più drammatici del contagio. Questa lezione sulla Sanità ci deve servire molto per il futuro in tutti i settori del welfare, dove i tagli saranno indispensabili, ma non dovranno colpire la qualità e la portata delle prestazioni. Ma gli sprechi, i tantissimi e insopportabili sprechi.

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Il bisogno di Stato. Dall’assistenza sanitaria agli aiuti alle famiglie e alle imprese. Dal bonus una tantum per il popolo delle partite Iva ai buoni per pasti e acquisti al supermercato per le famiglie più povere. Dagli acquisti urgenti di mascherine e respiratori alla creazione di nuovi ospedali. Chi può fare tutto ciò, contemporaneamente? Una sola persona: lo Stato. Ed è lo Stato, non certo il mercato, che potrà e dovrà fare politiche di redistribuzione del reddito per venire incontro alle fasce più fragili. Sempre attraverso la mano pubblica dovremo proteggere grandi aziende da sistema Paese che rischieranno di essere travolte dagli effetti economici della pandemia. Per non parlare degli investimenti in ricerca, nelle infrastrutture, in una vera e propria ricostruzione. Da portare avanti con determinazione e con una regia che non può non trovare nello Stato la sua cabina naturale. Alla faccia della retorica liberista che ha ridotto l’immagine dello Stato, con le sue diverse articolazioni, a quella di un mostro. Senza testa e senza cervello. 

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La pulizia delle città. Certo: abbiamo negozi, bar e ristoranti chiusi. Per settimane non più del 10 per cento della popolazione ha potuto circolare. Intere attività, che producono imballaggi e rifiuti, si sono fermate. Eppure tutto ciò non basta per dare una spiegazione al fenomeno che abbiamo sotto gli occhi: città pulitissime. Ovunque. Marciapiedi, strade, giardini. La verità è che, almeno nelle nostre case, abbiamo dimostrato, anche in questo caso per necessità, quanto sia facile e possibile ridurre la produzione dei rifiuti. Drasticamente. Tenendo presente che partiamo da una posizione molto scomoda, ovvero il terzo posto tra i paesi europei per quantità di tonnellate di immondizia da smaltire con un tasso di riciclo molto basso. Pochi gesti, pochi accorgimenti, e la valanga di spazzatura si sgonfia da sola, senza altre emergenze. Così come, e lo vedremo con le statistiche ufficiali quando saranno pronte, in tempi di coronavirus abbiamo fatto meglio la raccolta differenziata, premessa indispensabile per arrivare al riciclo. Altro cosa che, auguriamoci, faremo sempre meglio e ovunque.

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La scoperta dello smartworking. Pensate che spreco: fino ai giorni del “tutti a casa”, in Italia, su una potenziale platea di 8,3 milioni di lavoratori, soltanto 354mila praticavano con regolarità lo smart working. Circa il 2 per cento, rispetto al 20 per cento del Regno Unito, al 16,6 per cento della Francia e all’8,6 per cento della Germania. Pigrizia culturale? Diffidenza degli imprenditori? Scarsa voglia di cambiare abitudini? A spazzare via tutte queste domande ci ha pensato l’uragano del coronavirus e gli italiani hanno scoperto che il lavoro da casa, ovviamente con i dovuti paletti, presenta vantaggi enormi. Migliora la qualità della vita, il nostro benessere, le nostre relazioni sociali e la vita in famiglia. I vantaggi economici sono evidenti. Il lavoratore percepisce un vero e proprio aumento di stipendio sotto diverse forme. Spende meno soldi, in quanto non ha costi di trasporto da coprire, e spende meno tempo in quanto non ha da calcolare la percorrenza da casa al posto di lavoro e ritorno. Tutto ciò esentasse, al contrario di un qualsiasi aumento di stipendio che invece finisce sotto la scure fiscale. Lavorando da casa, il carico degli impegni domestici si può distribuire meglio (con enormi vantaggi per le donne), i figli possono essere seguiti da entrambi i genitori, e lo spazio per fare la telefonata a un amico, o bere un caffè con un vicino di casa, si allarga. Per le imprese, tra i risparmi più importanti c’è quello dello spazio per le postazioni di lavoro (e quindi di potenziali affitti): con il lavoro da casa a rotazione, servono meno metri quadrati dove sistemare tutti i dipendenti. E adesso che abbiamo capito quanto vale lo smart working, rompiamo la barriera della diffidenza, e cerchiamo di farlo crescere ovunque sia possibile, nel pubblico come nel privato.

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Quella voglia di serietà. Ricordate le baggianate che abbiamo ascoltato a proposito della post-verità, ovvero di un mondo dove il confine tra il vero e il falso non esiste più e neanche ne abbiamo bisogno? Bene: la tragedia del Covid-19 ci ha messo con le spalle al muro, e mano a mano che cresceva la paura, l’insicurezza, lo sgomento, in ciascuno di noi aumentava un solo desiderio: la voglia di verità. Di una possibile, autorevole e documentata verità. Non quella dei saltimbanchi televisivi, non le panzane sul web e in particolare quelle veicolate attraverso la palude dei social, non le sparate dell’ultimo “scienziato” che si auto-proclama tale. Per arrivare a una verità, e quindi a una soluzione di un qualsiasi problema, serve serietà. Non bastano coraggio, fortuna, creatività, capacità di auto-promuoversi. Lo hanno capito, almeno nella fase di esplosione del contagio, i politici, che hanno ancorato le loro decisioni alle valutazioni degli esperti, senza improvvisazioni e riservandosi il diritto-dovere delle scelte finali. Come nell’emergenza ci affidiamo, anche delegandogli più di quanto possa fare, a persone competenti, così in un percorso di medio e lungo periodo (il governo di un Paese e tanto più la sua parziale ricostruzione) abbiamo bisogno di persone serie. E tante. Speriamo che si facciano avanti.  E che siano capaci di durare nel tempo.

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I reati crollano. Omicidi, furti e rapine: in un Paese chiuso in caso, immobile e bloccato dalle misure antivirus, sono crollati. Più o meno attorno a un meno 65 per cento. Restano alti, e molto preoccupanti, i reati di maltrattamento che, in mancanza di denunce reali, potrebbero perfino registrare un segno meno di scarso significato. La convivenza forzata, in alcuni casi, è l’anticamera della violenza, specie in quei nuclei familiari squassati non dal coronavirus ma dall’odio. Ufficialmente, la riduzione dei reati per maltrattamenti è solo del 40 per cento, 20 punti in meno degli altri reati.

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Il silenzio rotto dai rumori degli animali. Le anatre che passeggiano, padrone delle acque delle fontane di Roma. Le lepri a spasso nei parchi di Milano. I tassi in giro per le strade di Firenze, e i pesci che tornano nei canali di Venezia. I delfini che sguazzano nel porto di Trieste. E i gatti, tantissimi gatti, ovunque, anche loro con lo sguardo sgomento, increduli per quanto accade con il coronavirus. La quarantena ha tatto tornare gli animali accanto all’uomo, anche negli ambienti urbani, da dove erano di fatto scomparsi. Dimostrazione evidente che la natura non ha fatto le nostre città per escludere gli animali e che spazio per loro dovremo sempre trovarne nelle metropoli del mondo sostenibile. E sono gli animali, solo loro, che rompono il muro del surreale silenzio delle città chiuse, con intere popolazioni bloccate in casa. Quel silenzio che avevamo smarrito, trasformandolo in un bene di lusso, a beneficio solo dei privilegiati che possono permettersi di coltivarlo, è diventato finalmente un bene da condividere, anche se in condizioni surreali e non certo piacevoli. Ma ricordiamocelo per il dopo: il silenzio sarà sempre più prezioso nelle nostre vite.

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L’impatto sulla sostenibilità. L’Asvis, l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile, presieduta dal professore Enrico Giovannini, ha fatto un lavoro egregio e molto utile: calcolare, con base scientifica e dove è possibile, gli effetti della pandemia sui 17 obiettivi dell’Agenda Onu 2030 sullo Sviluppo sostenibile. I risultati li trovate qui. In generale, va smentita la voce che considera il coronavirus perfino una buona occasione per rilanciare le tematiche dello sviluppo sostenibile. È esattamente il contrario, anche per una questione di fondi. In particolare, gli obiettivi sul quali l’impatto sarà più negativo riguardano la povertà, l’educazione, la condizione economica e occupazionale, l’innovazione e le diseguaglianze. Soltanto per il sistema energetico, la lotta al cambiamento climatico e la qualità della governance c’è da aspettarsi qualche cambiamento di segno positivo. Intanto consoliamoci con un dato riportato dal Carbon Brief: la riduzione di petrolio e carbone da parte dell’industria cinese, per effetto della pandemia del coronavirus, si è tradotta in una diminuzione del 25 per cento delle emissioni di CO2 nelle due settimane del Capodanno cinese del 2020 rispetto a quello del 2019. Piuttosto c’è una lezione che impariamo, a proposito di sviluppo sostenibile, da questa crisi sistemica. L’emergenza va affrontata in modo corale, con azioni, impegni e sforzi che vanno dal singolo cittadino agli organismi sovranazionali. Conoscete un terreno sul quale orientarsi in questo modo più della sostenibilità? Non esiste. E quindi c’è solo da darsi da fare.

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