Cosi’ le caste degli ordini difendono i loro privilegi

Correva l’anno 1983 quando il ministro della Giustizia, il navigato democristiano Clelio Darida, promise in Parlamento: «Faremo una nuova legge sugli ordini professionali per modernizzare il sistema  nell’interesse di tutti gli italiani». Da allora nessun successore di Darida si è sottratto al rito dell’annuncio di una riforma che, in quasi trent’anni, non è mai stata […]

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Correva l’anno 1983 quando il ministro della Giustizia, il navigato democristiano Clelio Darida, promise in Parlamento: «Faremo una nuova legge sugli ordini professionali per modernizzare il sistema  nell’interesse di tutti gli italiani». Da allora nessun successore di Darida si è sottratto al rito dell’annuncio di una riforma che, in quasi trent’anni, non è mai stata approvata. Commissioni di esperti, tavoli di concertazione, disegni di legge a valanga: tutto tranne un significativo cambiamento. Intanto il ricco mondo delle professioni, che vale un giro d’affari di almeno 200 miliardi di euro e ha  un peso economico pari a circa il 15 per cento del pil, è stato blindato e ingessato per impedire qualsiasi forma di concorrenza. E gli ordini, con oltre 2 milioni di iscritti,  pur avendo sulla carta una funzione costituzionale di difesa degli utenti-consumatori,  nella realtà si sono trasformati in autentiche barricate a protezione, per ciascuna categoria, di tre privilegi: le riserve di attività svolte in esclusiva, le barriere all’accesso, l’impunità nel caso di gravi errori o reati. Tutto questo si traduce in un danno per i cittadini, costretti a pagare tariffe più alte senza garanzie sulla qualità delle prestazioni, e in una zavorra per la crescita economica: la rendita monopolistica nei servizi, a partire dalle professioni, secondo la Banca d’Italia abbassa il prodotto interno lordo, cioè la ricchezza nazionale, di oltre 11 punti.

Il mercato delle pillole, per esempio, è un’esclusiva nelle mani di circa 14mila farmacisti titolari di una licenza regionale. Per entrare nel club bisogna vincere il biglietto della lotteria, ovvero ereditare la bottega di famiglia o trovare i soldi, milioni di euro, per acquistarla. E le licenze? Di fatto sono congelate nella fitta rete di una burocrazia che, attraverso la regia dell’ordine professionale, rende impossibile la concessione di nuove autorizzazioni. Se una regione prova ad allargare le maglie, a bloccare tutto ci pensa una sentenza del Tar, che ha assunto il ruolo di ultimo giudice nell’assegnazione in esclusiva dei vari territori di competenza. Gli ingeneri e gli architetti sono riusciti così a impedire, attraverso una sentenza del tribunale amministrativo della Campania, che i geometri potessero firmare progetti nei quali viene previsto l’uso del cemento armato, e gli avvocati hanno stoppato l’intervento dei commercialisti nei contenziosi extragiudiziali,  quelli che non passano per un giudizio in tribunale. Perfino guide alpine e maestri di sci (due albi separati)  hanno spartito il loro lavoro in montagna: chi usa corda, piccozza e ramponi non può insegnare gli slalom tra i paletti. E i tecnologi alimentari, l’ultima categoria che ha conquistato la rete di protezione di un ordine professionale, hanno portato a casa la riserva indiana dei posti nelle commissioni delle gare d’appalto per le forniture alimentari negli enti pubblici e le perizie, in caso di frodi alimentari, disposte dai tribunali. Quanto alla deontologia, la regola aurea è una sola: il professionista che sbaglia non paga. Mai. Il meccanismo delle sanzioni è molto garantista e prevede un giudizio in sede locale, un appello a livello nazionale e, infine, un eventuale pronuncia di un tribunale ordinario. Nel 2010 su 150mila avvocati i procedimenti disciplinari arrivai davanti al Consiglio nazionale forense sono stati appena 334; nella piazza romana, dove sono iscritti 11mila commercialisti, si discutono un centinaio di casi l’anno. La metà vengono archiviati e gli altri vanno in giudizio non definitivo, ovviamente. Tra le prerogative che i professionisti difendono con i denti e con le unghie ci sono anche alcuni strumenti che, una volta rimossi, potrebbero portare concorrenza e competizione, a danno degli iscritti alle categorie ed a favore dei consumatori dei servizi. Si dice: le tariffe minime sono una garanzia di trasparenza e di qualità della prestazione. Ed è una cosa falsa due volte perché, nei fatti, servono solo a impedire ai più giovani di conquistare quote di mercato attraverso una riduzione delle parcelle, e non  sfoltiscono la giungla dei prezzi. L’associazione Altroconsumo ha fatto un’inchiesta in sette grandi e medie città italiane, e ha scoperto che nonostante l’abolizione della tariffa minima introdotta dalla legge Bersani, gli avvocati continuano ad applicare questo parametro, con il consenso dell’ordine professionale, salvo poi non rispettarlo quando il cliente ne fa esplicita richiesta. Così in uno studio di Milano, per il primo colloquio preliminare si è arrivati a pagare 624 euro in contanti. La pubblicità è un tabù, mascherato dalla definizione di “decorosa”, un aggettivo la cui valutazione è affidata sempre agli ordini. Con il risultato che nella realtà viene proibita e l’associazione avvocatipoint.it ha dovuto interrompere la sua campagna con la quale offriva l’assistenza in cause di separazione per soli 620 euro. Prezzi troppo bassi, secondo l’ordine, che significavano “una lesione della dignità della categoria”. Per fermare la concorrenza ogni appiglio della legge diventa utile, anche quando si tratta di norme assolutamente fuori dalla storia. Nelle professioni legali in Italia, caso unico in Europa, non si possono formare società di capitali: l’assurdo divieto risale a una legge antisemita del 1939 che proibiva agli  avvocati ebrei, messi al bando, di esercitare l’attività in anonimato.

Le leve del potere di ordini e albi, che comprendono anche la gestione di 16 casse previdenziali autonome, sono manovrate da un ceto di professionisti degli ordini professionali. Una vera lobby, spalmata in 2mila sedi, nazionali e territoriali, con una moltiplicazione all’infinito di presidenze, posti di consigliere, incarichi, e innanzitutto con la gestione di budget per congressi, convegni e pubblicazioni. In media, un consigliere dell’ordine dei commercialisti dura in carica 12 anni, come i notai, mentre avvocati e ingegneri si accontentano di un decennio di cariche istituzionali. Da 34 anni Giuseppe Jogna ricopre un ruolo di comando alla guida dei periti industriali, da 33 anni l’avvocato Maurizio de Tilla gira nella prima fila della categoria forense, passando dall’ordine alla cassa di previdenza fino alla presidenza dell’Oua, l’organismo unitario dell’avvocatura, da 25 anni Roberto Orlandi ha fondato l’ordine degli agrotecnici e da allora non si è più mosso dal vertice della categoria. I gerontocrati delle professioni si prendono una pausa solo per godersi una parentesi di militanza politica: Eolo Parodi, già presidente dell’ordine dei medici, si è concesso un ventennio in Parlamento, con la Dc e con Forza Italia, prima di tornare alla guida dell’ente pensionistico della sua categoria; Giancarlo Laurini, dopo un periodo da deputato di Forza Italia, è tornato a ricoprire l’incarico da dove era partito, cioè la presidenza nazionale dell’ordine dei notai.

In queste condizioni una riforma degli ordini professionali è semplicemente impossibile, anche perché non ha senso. Non si possono mettere sullo stesso piano, per esempio, categorie che presentano un eccesso di offerta con altre che invece hanno il problema opposto. In Italia lavorano soltanto a Roma un numero di avvocati equivalenti a quelli di tutta la Francia, e gli iscritti all’ordine dei commercialisti della Toscana sono pari ai colleghi dell’intero territorio francese; al contrario, a fronte di 5.312 sedi notarili, previste sulla carta, risultano solo 4.500 notai in servizio e i concorsi per i nuovi ingressi procedono con il contagocce. Dunque: per aprire il sistema e rompere la diga corporativa che lo rende impermeabile, bisognerebbe procedere con singoli interventi, categoria per categoria, lasciando in comune agli ordini soltanto due funzioni di base, e cioè la tutela dei consumatori e la formazione professionale. Non a caso, nei trent’anni della riforma annunciata e mai realizzata, l’unica piccola scossa di cambiamento è stata quella dell’unione dei commercialisti con i ragionieri, decisa in autonomia dalle due categorie, dopo un divorzio durato mezzo secolo. Discutere di una legge urbi et orbi serve soltanto a chi ha interesse a non modificare nulla, come hanno capito bene i professionisti degli ordini che hanno creato un super organismo di rappresentanza, il Cup (Comitato unitario delle professioni), che ha la funzione di impantanare qualsiasi intervento di sistema. Salvo mascherare questo ruolo con una furbizia tutta italiana di mostrarsi come le vittime, più che i carnefici, del mancato cambiamento dell’universo professionale. Recentemente la presidente del Cup, Marina Calderone, ha dichiarato: «Noi siamo un sensore di quante accade in Italia, e rappresentiamo la forza d’urto che può fare decollare la modernizzazione del Paese». Già, e se lo dice lei, come lo annunciava nel 1983 il ministro Darida, possiamo stare sicuri: le caste dei professionisti non le toccherà nessuno.

 

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