Crisi dell’Occidente: e se fosse un problema di classe dirigente?

I valori dell’Occidente non sono mai stati così riconosciuti come fondamentali. Lo Stato sociale è una conquista che il resto del pianeta ci invidia. Il vero problema delle società occidentali è nel manico

crisi occidente

C’è qualcosa che non quadra nella narrazione ricorrente dell’Occidente funestato da una crisi storica e irreversibile. Una tesi catastrofista, che piace tanto ai profeti di sventura, e mette insieme cose molto diverse, dalla crisi sociale (effetto innanzitutto dei salari bassi e della mancanza di politiche dei redditi) all’evaporazione dei valori alla base di una civiltà che sembrava destinata a dominare il mondo. E invece è diventata, sempre secondo questa interpretazione della contemporaneità, una minoranza compressa dall’avanzata di paesi (Cina, India, Russia, per fare gli esempi più significativi) con altri valori e altre radici.

Crisi dell’Occidente

L’idea della crisi dell’Occidente, un modo di declinare la nostra autoflagellazione per chissà quali misfatti abbiamo da farci perdonare, ricorda da vicino un altro teorema che ebbe grande fortuna agli inizi degli anni Novanta: la fine della storia, in base alla quale il capitalismo e la democrazia liberale erano destinati a piantarsi in tutte le nazioni del mondo. Le cose poi sono andate in direzione opposta, la storia non è mai finita, capitalismo e democrazia liberale hanno i loro problemi strutturali, e l’autore di questa strampalata teoria, il politologo Francis Fukuyama dovrebbe avere in buongusto di fare una severa autocritica. 

Valori dell’Occidente

La crisi occidentale partirebbe dall’eclissi dei suoi valori, nati dall’impasto del Cristianesimo con l’illuminismo. Davvero? Proprio in quanto valori universali, circoscritti purtroppo al mondo occidentale, si tratta di punti cardinali che mai come in questo momento hanno la loro forza. Dalla libertà all’uguaglianza, dalla fraternità alla parità dei diritti tra i sessi. Fuori dal perimetro dell’Occidente, questi valori non sono riconosciuti e vengono calpestati ogni giorno. Le elezioni, uno ma non l’unico connotato di una democrazia, sono una formalità, generalmente truccata. I regimi politici hanno forme che sconfinano nell’autoritarismo e in governi dominati da satrapi a vita. Manca l’ingrediente di fondo del pluralismo democratico, il famoso principio del “check and balance”, controllo incrociato e bilanciamento dei poteri, scolpito da Alexis de Tocqueville agli inizi dell’Ottocento come incipit delle democrazie. Le donne, nel mondo non occidentale, sono spogliate di alcuni diritti fondamentali, escluse di fatto dalla vita pubblica, dalle gerarchie del lavoro, e dalle pari opportunità rispetto al sesso maschile. Perché mai, in questo quadro, dovremmo considerare i valori dell’Occidente come in declino e non più riconosciuti? Semmai è il contrario, e la domanda è come renderli universali, anche dove non hanno mai fatto strada. 

Il welfare occidentale

Tra le conquiste più vitali dell’Occidente, in forme diverse da paese a paese e con una tonalità più forte in Europa, c’è sicuramente il welfare, ovvero uno Stato che, nella libertà e nella responsabilità dei suoi cittadini, garantisce a tutti l’accesso ai servizi sanitari, all’istruzione, dall’asilo all’università. Con questa forza motrice in Occidente si è messo in moto per decenni l’ascensore sociale, che non si è mai fermato fino alla crisi degli ultimi anni, quando la forbice delle diseguaglianze si è allargata anche in Occidente, effetto di un capitalismo selvaggio e di una politica privata del suo primato. A quel punto, e non è una pura coincidenza, il sistema del welfare ha iniziato a perdere colpi. Lo abbiamo visto con il coronavirus: quanti morti in più avremmo dovuto contare senza la risposta forte, anche se non sempre adeguata, dei servizi offerti gratuitamente dallo Stato sociale? E quante persone avrebbero dovuto rinunciare alle cure se non avessero avuto la protezione dell’ombrello del welfare? Il coronavirus, e la risposta che abbiamo dato, ci ha detto quanto sia necessario rafforzare il welfare (semmai riducendo gli sprechi), a partire dall’assistenza sanitaria sul territorio.

 Fuori dall’Occidente il welfare è la tirannia di stati che distribuiscono risorse sulla base degli orientamenti dei regimi e del consenso da comprare a buon mercato, con minoranze di oligarchie sempre più ricche e potenti, e ceti medi impoveriti e subalterni. Il welfare occidentale è una bandiera alla quale non dovremmo mai rinunciare, e semmai va ripensato per rafforzarlo, non per ridimensionarlo.

Classi dirigenti in Occidente

E allora che cosa è veramente in crisi in Occidente, se i suoi valori e il suo welfare sono ancora solidi? Il vero problema è rappresentato dalla pochezza delle classi dirigenti occidentali, senza esclusione di aree geografiche. Abbiamo élite occidentali povere di idee, autorevolezza, competenza, formazione: e in questo siamo sicuramente più deboli del mondo non occidentale, dove le classi dirigenti saranno pure autoritarie, ma hanno uno spessore e una credibilità molto diverse dalle nostre. Un rapido giro d’orizzonte sul versante politico rende l’idea del fenomeno, questo sicuramente di portata storica. L’America è un paese radicalmente diviso in due, dove né tra i repubblicani né tra i democratici si vedono, neanche all’orizzonte, figure di spicco. Il fenomeno di Donald Trump nasce anche da questo vuoto, e l’alternativa onesta ma fragile di Joe Biden è solo l’altro lato della medaglia. In Inghilterra il ventennio dei conservatori è stato sepolto da una sequenza di errori dei quali il più grave, la Brexit, è tutto sulle spalle di un leader sprovveduto e presuntuoso, David Cameron, e del suo cerchio magico. La Germania non ha ancora metabolizzato la fine del ciclo di Angela Merkel, e non si vede chi abbia i requisiti per sostituirla. La Francia, a prescindere dalle brusche oscillazioni elettorali, è, secondo le parole del politologo Pascal Perrineau, “un cimitero di élite“. Ovunque i partiti non sono impregnati di un’identità che li rende diversi uno dall’altro, con una competizione aperta, secondo regole condivise, per la leadership e la distribuzione del potere. Stiamo andando oltre il surrogato democratico del partito ad personam, con un uomo, o una donna, soli al comando, e siamo entrati nel paludoso terreno di forze politiche dove ciascuno difende solo e soltanto le proprie posizioni (non le convinzioni) personali, in una verticalizzazione del potere che può solo indebolire la democrazia.

 Quanto all’Italia, e alla specificità del suo caso, non facciamo altro che rimpiangere le qualità della classe dirigente che ha accompagnato il Paese durante la lunga cavalcata del boom economico, l’epopea del benessere e della trasformazione di un popolo di contadini analfabeti in una potente e ricca nazione occidentale completamente cetomedizzata.

L’impoverimento delle classi dirigenti, sia chiaro, non riguarda solo la politica. Lo vediamo dappertutto: nei gironi del mondo intellettuale, nell’universo delle professioni, nel circuito delle imprese quando gli industriali decidono di entrare nel perimetro della vita pubblica. Ancora un esempio riferito all’Italia. Pier Paolo Pasolini è stato un mediocre scrittore e un irrisolto regista, ma la sua voce, libera e autonoma, ha rappresentato un punto di riferimento per l’opinione pubblica nazionale, prigioniera di luoghi comuni e di un rapporto distorto con la modernità. Pasolini, come Leonardo Sciascia (scrittore incostante), sono state voci autentiche di un pensiero libero che ha lasciato tracce e radici, molto più dei loro testi. Vedete qualcuno di simile in giro? C’è un Pasolini o una Sciascia, o una donna come Natalia Ginzburg, nel giro delle parrocchiette e dalle congreghe culturali, dominate dalla mediocrità, dall’assoluta mancanza di passione civile e da un imbarazzante opportunismo. Dove l’unica cosa che gli intellettuali, o presunti tali, sanno fare bene sono gli “scambi di figurine”, dalle recensioni ai premi letterari.

Dove nasce una classe dirigente

Una classe dirigente non nasce sotto il pero, e non si forma nel giro di qualche anno. Il suo impoverimento in Occidente va spiegato e interpretato, e partendo da qui forse si può immaginare un giro di boa. Ci sono almeno tre cause fondamentali che hanno portato all’eclissi delle élite nella vita pubblica. La prima è la globalizzazione, che ha sradicato le classi dirigenti occidentali, oggi apolidi e senza un territorio di riferimento. Una classe dirigente, al contrario, ha bisogno del suo spazio vitale nel quale si riconosce e per il quale si spende: quella del dopoguerra, per restare al nostro esempio, sentiva la missione di ricostruire un Paese distrutto da due devastanti conflitti mondiali, e questo era il suo perimetro territoriale. Le élite degli apolidi, dell’altrove, senza una precisa identità, sono fatte di cittadini del mondo, che possono stare ovunque ma non sentono le radici, e la voglia di difenderle e rafforzarle, in nessun luogo. Sono uomini e donne bravissimi a fare soldi e carriere, ma indisponibili a svolgere una funzione pubblica, anche solo per un breve periodo. La seconda causa è nella nuova gerarchia degli obiettivi da raggiungere. Il denaro, in una velenosa sovrapposizione di fini e mezzi, è lo scalpo da conquistare da parte di intere generazioni, che non hanno sentito alcuna attrazione per la vita pubblica. La mediocrità autoreferenziale del ceto politico è stata un alibi per lavarsi le mani, stare a distanza di sicurezza da responsabilità che contengano anche il seme dello spirito di servizio. Esercitare un ruolo da classe dirigente può significare anche pagare alcuni prezzi: non esiste una vita privata, si guadagna meno (specie rispetto a un lavoro nella finanza o tra gli studi legali d’alto rango), si convive con una precarietà legata a un consenso mai definitivo. Eppure, da singola persona puoi vivere accumulando anche una fortuna, ma da tassello di un ingranaggio più complesso, chiamato classe dirigente, c’è il rischio di lasciare un segno. Infine, il terzo fattore di impoverimento delle élite occidentali è legato allo smantellamento dei luoghi di formazione. Intere generazioni sono cresciute sommando competenze (dalle lingue all’informatica) sconosciute a chi è venuto prima, ma queste non sono state rovesciate, tranne rare eccezioni, nella vita pubblica. Al contrario, le vecchie scuole di formazione delle classi dirigenti sono state smantellate, in quanto ritenute inutili e poco ricercate. Restiamo al caso italiano: le nostre classi dirigenti del Novecento non si sono formate soltanto nelle scuole e nelle università, ma anche in altri luoghi, ricchi di pluralismo e diversità. Partiti, sindacati, uffici studi di grandi aziende: di tutto ciò non restano che macerie o surrogati. E il buco nero delle classi dirigenti è il vero fattore di crisi dell’Occidente, da non confondere con i suoi attualissimi valori e con l’unicità del suo welfare.

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