La disoccupazione giovanile in Italia: il peggior spreco del nostro paese

Le rigidità di accesso al mercato del lavoro, un conflitto generazionale che si è risolto a vantaggio dei genitori e l'emigrazione dei cervelli in fuga. Un'analisi puntuale, dati alla mano, di questo fenomeno che corrode il paese.

disoccupazione giovanile in Italia

Non siamo un Paese per giovani. Non solo per un fisiologico effetto demografico, con le famiglie che si restringono per numero di figli e con l’età media della vita che si alza, ma innanzitutto per una questione vitale rispetto alla nostra dimensione di comunità nazionale, di italiani: per i giovani non c’è lavoro e non ci sono opportunità. Le porte sono chiuse, tappate, per ragazzi e ragazze che dovrebbero rappresentare il nostro principale investimento e invece stiamo spingendo, passo dopo passo, sulla strada di una vita senza approdi e senza certezze. Uno spreco assoluto di risorse umane, di energie fresche, di voglia di modernità. E di futuro da sognare e da costruire.

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DISOCCUPAZIONE GIOVANILE IN ITALIA. L’Istat ci comunica che la disoccupazione giovanile in Italia è schizzata al 41,6 per cento, record storico e assoluto dal lontano 1977. Che cosa è avvenuto in questi 35 anni per ritrovarci in un precipizio, nella Bella Italia su misura solo per gli anziani? Semplificando, la storia sarebbe molto più lunga, possiamo dire che la disoccupazione giovanile di massa certificata dall’Istat è figlia di tre fenomeni, che vanno spiegati non solo con la forza dei numeri.

1. LE RIGIDITA’ DI ACCESSO AL MERCATO DEL LAVORO. Il primo fenomeno riguarda i percorsi di formazione e di accesso al lavoro. Seduti sul nostro benessere,  abbiamo pensato bene di dequalificare mestieri, dove pure siamo un Paese di eccellenze, scuole e università. Un tempo, un ragazzo faceva l’istituto nautico e trovava lavoro, anche ben pagato, oppure usciva da un istituto tecnico e doveva solo scegliere l’azienda dove collocarsi. Nei 35 anni della curva verso il basso invece abbiamo, quasi scientificamente, ammazzato la formazione professionale, riducendola a un pozzo nero di sprechi e clientele con il solito timbro delle amministrazioni regionali, specie al Sud. E adesso paghiamo il conto.

In Germania, il tasso di disoccupazione giovanile è al 7 per cento e il 61 per cento dei lavoratori dell’industria ha un diploma tecnico: più del 50 per cento dei giovani disoccupati tedeschi trova un nuovo posto di lavoro in meno di tre mesi e solo il 12 per cento aspetta un anno. E’ chiara la differenza? La Germania cresce, proiettata verso il futuro, e nonostante la Grande Crisi non ha un problema strutturale di disoccupazione giovanile, noi abbiamo ancora migliaia di ragazzi che inseguono lauree fasulle e inutili, prive di sbocchi reali sul mercato del lavoro. La metà dei ragazzi tedeschi frequenta un corso di formazione professionale, autentico e non taroccato, con 340 vocazioni diverse, dall’infermiere al bancario, dal meccanico all’elettronico; la metà dei ragazzi italiani vivacchia, in termini di studi prima e di lavoro dopo, nel buio totale.

La formazione dequalificata è andata, poi, di pari passo con le rigidità del mercato del lavoro, specie per quanto riguarda i meccanismi di accesso. Quando abbiamo capito, sempre in un arco di tempo di 35 anni, che non si poteva andare avanti così, si sono moltiplicate le assunzioni a tempo determinato dei giovani, attraverso la nota porta della flessibilità all’ingresso. E tra co.co.co , co. co.pro, e via con le sigle, abbiamo esagerato, con le aziende più disinvolte che hanno confuso la flessibilità con il precariato a vita. Stipendi da fame, con i quali è impossibile per un giovane programmare una famiglia e acquistare una casa con un mutuo: non caso l’Istat, a proposito della fascia di età tra i 15 e i 24 anni, parla di 924mila giovani che “partecipano al mercato del lavoro”. Partecipano, perché il lavoro in un call center, pagato qualche centesimo a telefonata andata a buon fine, non può essere considerato un lavoro definitivo, semmai dovrebbe essere il primo gradino di un percorso professionale.

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2. I RACCOMANDATI. Il secondo fenomeno è al confine tra l’antropologia e le scienze sociali: in Italia i genitori hanno fatto fuori i figli. E il latente conflitto generazionale, si è risolto tutto a vantaggio dei primi, cioè degli anziani o diciamo dei maturi di oggi. Blindati, i padri, nei loro posti di lavoro e nelle loro carriere, talvolta con stipendi iperbolici, e coperti dal lenzuolo di uno Stato sociale che invece lesina le risorse per favorire l’ingresso dei giovani, i figli, sul mercato del lavoro. Nell’Italia del declino si è così bloccato l’ascensore sociale, e abbiamo ricamato una società piatta, inchiodata sul presente, mentre il futuro è scomparso dall’orizzonte delle nuove generazioni. A questo diabolico meccanismo si sono sottratti solo i soliti noti, cioè i figli del Signor Qualcuno. Così, i dati sono di Alma Laurea, il 44 per cento degli architetti sono figli di architetti, il 42 per cento degli avvocati sono figli di avvocati e il 40 per cento dei medici sono figli di medici: sono i numeri del familismo all’italiana.

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3. LA NUOVA EMIGRAZIONE. Il terzo fenomeno che aiuta a capire come ci stiamo avvicinando a grandi passi verso un tasso di disoccupazione al 50 per cento, si legge attraverso la lente della nuova emigrazione. I giovani di oggi non hanno la spinta propulsiva che avevano i loro nonni quando hanno ricostruito l’Italia, non sentono salire la febbre delle opportunità, e così preferiscono emigrare all’estero. Un giovane che ha talento, voglia di studiare e di lavorare, ambizioni, oggi fa una cosa molto semplice: una bella valigia, e bye bye Italia. Per sempre, non solo per conquistare una buona laurea in una università ben accreditata nelle classifiche internazionali, oppure per andare a fare un’esperienza di studio-lavoro nelle città del mondo dove la vita, per i giovani, pulsa. Siamo ormai attorno a 60mila ragazzi che hanno lasciato l’Italia per andare a studiare all’estero, convinti che dalle nostre parti non ci sia la possibilità di un buon lavoro, ben pagato, e non solo di un posto. Sono andati via per non tornare. Magari poi lo faranno da anziani, e allora scopriranno quanto è bella l’Italia, e quanto è alta la nostra qualità della vita da Bolzano a Palermo. Per il momento sono stati costretti a prendere atto che qui, per loro, per i giovani, non c’è posto. In nessun senso.

Da il Mattino

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