Dopo dieci anni di euro gli italiani sono diventati più ricchi o più poveri? I nostri stili di vita, a partire dai consumi e dal carrello della spesa, sono migliorati o peggiorati in seguito all’introduzione della moneta unica? Per rispondere a queste domande che riportano a una dimensione di vita quotidiana il decennio di una valuta così controversa e oggi perfino a rischio sopravvivenza, è indispensabile analizzare in modo combinato i numeri e la storia. In teoria le cifre, infatti, dicono che il salasso che spesso gli italiani addebitano all’euro non c’è stato: il calo del potere d’acquisto dal 1° gennaio 2002 è stato del 7 per cento, e cioè il valore pari alla differenza, nello stesso periodo, tra l’inflazione, cresciuta del 21 per cento, e il reddito pro capite, il cui incremento è stato pari al 14 per cento. In pratica, sappiamo tutti che gli stipendi, specie quelli di operai e impiegati, e le pensioni, a partire dalle più basse, non hanno avuto una crescita proporzionale al reale aumento del costo della vita, e dunque siamo sicuramente impoveriti, nel senso che alcune cose essenziali (l’affitto di una casa, la spesa al supermercato, la polizza dell’auto o del motorino) hanno toccato livelli proibitivi rispetto alle disponibilità di reddito dell’italiano medio. E il sig. Rossi o il sig. Esposito sono riusciti a mantenere inalterati i loto stili di vita, innanzitutto grazie alla quota di risparmio-patrimonio disponibile (350mila euro a testa, comprendendo anche le case di proprietà) che adesso, per effetto della Grande Crisi, viene erosa ed esposta al rischio di un crack. E così quel debito pubblico che da autentici spreconi, nonostante l’euro, non siamo riusciti a ridurre, oggi rischia di mangiarsi in un solo boccone quanto abbiamo messo da parte contenendo, in modo virtuoso, il debito privato e coltivando il risparmio.
Sulle nostre tasche, in questi dieci anni di euro, hanno pesato in modo determinate due fattori: la speculazione (nazionale e internazionale) e la mancata crescita del Paese, spesso bloccato da scarsa concorrenza e competitività di servizi, imprese (sì, anche quelle che predicano il mercato e poi lo calpestano) e interi settori. Ecco perché, per esempio, il prezzo del pane è cresciuto mediamente del 50 per cento mentre gli altri generi alimentari sono aumentati quasi in linea con l’inflazione (+ 25 per cento); le polizze rc per auto e motorini sono schizzate anche del 140 per cento, il gas è aumentato del 34 per cento, il caffè del 35 per cento, la pizza del 40 per cento, e l’ingresso in uno stabilimento balneare è più che raddoppiato. Al contrario, dove è aumentata la concorrenza e l’innovazione del prodotto, le cose sono molto migliorate per i nostri budget: i farmaci, che partivano da prezzi assurdi, costano quasi un terzo in meno rispetto al 2002, i computer li paghiamo meno della metà di allora, gli apparecchi telefonici sono crollati del 73 per cento e i costi per le telefonate si sono ridotti del 28 per cento. D’altra parte, la scarsa e inefficace difesa contro la speculazione ha rappresentato una sorta di vizio d’origine dell’euro, con gravi responsabilità dei governi che hanno accompagnato il changeover, cioè il passaggio dalla lira alla moneta unica. Ricordate? Nulla fu fatto per difendere i poveri consumatori, neanche le cose più elementari, come per esempio consentire un lungo periodo di doppia moneta oppure la stampa di un euro di carta, come il dollaro. Risultato: già allora i proprietari e i gestori dei ristoranti, e non solo loro, pensarono di applicare una strana equazione, diventata quasi un parametro valutario, e cioè un euro uguale mille lire. Cioè prezzi raddoppiati al momento di pagare il conto, e il salario di un operaio e lo stipendio di un insegnante a stento aggiornati sulla base del tasso d’inflazione. Quanto alla benedetta crescita, che non siamo riusciti a stimolare con l’euro moneta unica senza Europa unica, l’Italia si è ritrovata spiazzata rispetto a economie più forti, come quella della Germania che ha sempre migliorato in questi dieci anni la propria bilancia dei pagamenti e ha potuto contare, sul piano dei consumi interni, su un livello medio dei prezzi più basso del 20-25 per cento rispetto a quello di noi italiani.
C’è un’ultima domanda alla quale bisogna dare una risposta per completare il quadro: sarebbe andata meglio, per i cittadini, per le famiglie e per le imprese senza l’euro?. Qui la risposta è secca, anche se qualcuno dubita: no, assolutamente. E vengono i brividi alla schiena solo a pensare che cosa potrebbe accadere in caso di implosione dell’euro, una sciagurata possibilità che significherebbe per ogni italiano un costo medio, a testa, di almeno 10mila euro, solo per il primo anno di ritorno alla lira. Quello sarebbe un salasso a tutto tondo, e per evitarlo, a parte il prezzo di un impoverimento reale che stiamo già pagando in modo molto pesante, bisogna solo sperare nella lucidità delle classi dirigenti europee e in uno scatto in avanti che non potrà non tradursi in una maggiore coesione politica e finanziaria di un’Europa che, al momento e dopo dieci anni di vita dell’euro, sopravvive soltanto in quanto ha realizzato, parzialmente, una zoppa moneta unica.
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