Due italiani su tre fanno una tac all’anno

Facciamo le tac come le margherite che il pizzaiolo sforna prima di passarle al cameriere per servirle a tavola: a ripetizione. Nessuna statistica sulle patologie in aumento, nessun allarme di epidemia, nessun virus misterioso del quale non si conosce l’origine, giustificano questa corsa a un’indagine costosa e con incorporate una serie di controindicazioni. Nell’ultimo anno […]

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Facciamo le tac come le margherite che il pizzaiolo sforna prima di passarle al cameriere per servirle a tavola: a ripetizione. Nessuna statistica sulle patologie in aumento, nessun allarme di epidemia, nessun virus misterioso del quale non si conosce l’origine, giustificano questa corsa a un’indagine costosa e con incorporate una serie di controindicazioni.

Nell’ultimo anno 40 milioni di italiani si sono sottoposti alla tac, due su tre se calcoliamo la popolazione del Paese. A parte i costi, privati e pubblici, che con questo volume di indagini si condensano in un gigantesco spreco di risorse, ci sono le ricadute varie. Per la persona che comunque, nonostante i netti progressi della tecnologia, riceve radiazioni nocive, e per l’ambiente che si ritrova con una bella iniezione di C02. Di fatto, paghiamo tutti pegno.

Le spese per le tac inutili rappresentano, con il loro ammontare complessivo, miliardi di euro, uno dei tanti angoli della spesa sanitaria fuori controllo, a carico poi delle regioni, a rischio default, dello Stato, con i conti pubblici nel mirino dei signori dello spread, e infine dei cittadini ai quali arriva il conto finale delle tasse sempre in crescita. Nella totale mancanza di trasparenza e nell’opacità di una lunga filiera di complici, dai medici spregiudicati alle aziende che forniscono gli impianti passando per il personale infedele degli ospedali pubblici e delle cliniche private convenzionate, si scopre poi che una tac (64 slice) costa 1.554 euro in Campania, 1.397 euro nel Lazio, 1.027 euro in Emilia Romagna. Sono differenze enormi che solo un alchimista dello spreco e della contabilità usa-e-getta potrebbe spiegare con i dovuti particolari.

Secondo Andrea Messori, vice presidente della Società italiana di farmacia ospedaliera (Sifo), in media in ciascun ospedale italiano si spendono 110 milioni di euro per l’acquisto di dispositivi medici e 90 milioni per i farmaci. Con una differenza, però: nel primo caso c’è un organo di controllo, l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), che dovrebbe monitorare ingiustificate differenze nei costi delle forniture, nel secondo si gioca a mosca cieca, e il prezzo è libero, ospedale per ospedale, clinica per clinica. Lo spreco per le tac fatte come le pizze, infine, si somma a quelli per gli ospedali-fantasma, alle pillole che vengono gettate nel cestino, alla metà del cibo per i pazienti che finisce nella spazzatura, a reparti costruiti e mai aperti: si somma, in pratica, in quella montagna chiamata spreco nella Sanità. Dove nessun governo è riuscito finora a mettere seriamente le mani, e dove adesso tocca provarci al super commissario Enrico Bondi. Lui ha fatto una promessa: ci proverà. E noi vedremo se ci riuscirà.

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