di Marco Magrini
I combustibili fossili non muoiono mai. Ieri l’Eia, il braccio statistico del Dipartimento americano dell’Energia, ha più che raddoppiato le stime sulle riserve nazionali di shale gas. Il metano intrappolato in mezzo alle scisti, rocce sedimentarie vecchie centinaia di milioni di anni, è stato liberato dal perfezionamento di una tecnologia idraulica che le ha rese improvvisamente sfruttabili. Per gli Stati Uniti (che ormai già ricavano dai giacimenti scistosi il 15% del loro gas) è una gran bella notizia.
Così, mentre il mondo si interroga su come architettare la riconversione del sistema energetico verso le fonti rinnovabili, quelle fossili continuano a esercitare le loro adulanti promesse. La cinese Sinopec sta per cominciare le prime esplorazioni di shale gas nello Sichuan. In America perfino la Kkr, la famosa società di private equity, ha annunciato di essere pronta a entrare nel business. Tutte le grandi compagnie energetiche stanno investendo su questa nuova prateria, tutta da esplorare. L’Eni e anche Sorgenia hanno già annunciato investimenti nei giacimenti scistosi della Polonia.
La promessa dello shale gas è la sicurezza energetica. L’Europa, stretta fra il declino dei giacimenti del Mare del Nord e lo strapotere del Cremlino, vede di buon occhio la diversificazione degli approvvigionamenti. Ma per Stati Uniti e Cina – che hanno le maggiori riserve di gas da scisti – è qualcosa di più di un sollievo.
Le controversie, ovviamente non mancano. David Paterson, governatore di New York, ha appena lanciato una moratoria di sei mesi: c’è il sospetto che la frammentazione idraulica danneggi le falde acquifere e vuole indagare. Poi c’è il fondato sospetto che l’estrazione provochi perdite di metano, un potente gas-serra. Ma ormai lo shale gas è diventato economicamente sfruttabile. Alla notizia dell’Eia, ieri il prezzo del gas a New York è sceso sotto i 4 dollari. Dopo averne bruciati miliardi di metri cubi, c’è più gas che mai.
Lo shale gas è l’ultima moda, nel club multinazionale delle compagnie petrolifere ed energetiche. Di recente, l’Eni ha rilevato una società polacca che possiede tre licenze per estrarre il gas dalle cosiddette scisti, formazioni rocciose a base di argilla, che si sono stratificate in milioni di anni, laddove un tempo c’erano bacini di acqua bassissima. E Sorgenia, società del gruppo Cir, ha annunciato di aver rilevato il 27% di una joint venture per l’esplorazione, sempre in Polonia, delle scisti gassose. Ma così fan tutti.
Come nel caso del cosiddetto petrolio non convenzionale, il gas non convenzionale è più difficile e costoso da estrarre. Lungo la catena degli Appalachi, c’è chi lo aveva prodotto per un secolo, ma con utili marginali. Fin quando la tecnologia dell’hydraulic fracturing (la frantumazione delle rocce con getti d’acqua e additivi chimici ad alta pressione) non ha fatto miracoli.
Da tempo si riteneva che il Barnett Shale, un bacino di rocce sedimentarie vecchie 350 milioni di anni che stanno sotto il suolo del Texas, contenesse grandi quantità di metano. Ma è solo grazie agli sviluppi recenti nella fratturazione idraulica – anche in orizzontale – che ConocoPhillips, EnCana e altri operatori hanno cominciato a sfruttarlo seriamente e con profitto: rappresenta già il 6% della produzione americana di gas naturale.
Peccato che i dubbi non finiscano qui. La combustione del gas aggiunge molta meno anidride carbonica all’atmosfera, rispetto al carbone. Ma l’aritmetica dell’effetto-serra è un po’ più complessa. Secondo uno studio appena pubblicato da Robert Howarth della Cornell University, i moderni metodi per ricavare il metano dalle rocce sedimentarie comportano fughe del prezioso gas nell’atmosfera. Peccato che, nei meccanismi dell’effetto-serra, sia 72 volte più potente della CO2. «Quando si mettono in conto le emissioni totali – scrive Howarth – il gas ottenuto con la fratturazione idraulica e il carbone scavato con il mountaintop removal, comportano le maggiori conseguenze sul riscaldamento globale».
Il mountain top removal è la pratica, ormai comune nel West Virginia e in Kentucky, di scavare comodamente il carbone dopo aver decapitato le vette degli Appalachi con la dinamite. È solo un altro indizio di questo pianeta energivoro, eppure costretto a fare i conti con l’insicurezza energetica. Non solo in America.
Russia, Iran, Algeria e Bolivia escono sconfitte dall’avvento dello shale gas. Il prezzo di tutto il gas naturale si fa a New York: quei 3,98 dollari segnati ieri, la metà del prezzo di due anni fa, scontano già l’ipotetico aumento delle riserve grazie al gas delle rocce. Secondo l’Aie di Parigi, il prezzo medio del gas al 2022 sarà 5 dollari. La promessa dello shale gas, sta cambiando il mercato. Ma anche la geopolitica.
L’Europa, mentre i giacimenti del Mare del Nord si stanno esaurendo, è lieta quanto la Cina di diversificare gli approvvigionamenti, oggi sin troppo appesi agli umori del Cremlino. In America, dopo che la ExxonMobil ha sborsato 31 miliardi per la produttrice di gas Xto Energy, fioriscono imprese e consorzi per liquefare il gas e spedirlo sotto forma di gas naturale liquefatto oltreoceano. Sul versante opposto, l’europea Royal Dutch Shell ha speso 4,7 miliardi di dollari in contanti per mettere il cappello sul bacino Marcellus. È un caso di euforia diffusa.
Di sicuro, questa storia dimostra ancora una volta che il progresso tecnologico riesce a risolvere problemi un tempo irrisolvibili, con una cadenza e una regolarità strabilianti. Ma al tempo stesso ricorda che l’accesso alle risorse energetiche è e resterà il tema dominante di questo secolo, perché la domanda punta fatalmente verso l’alto e l’offerta nella direzione opposta. Lo shale gas è una fortunata coincidenza. Ma non certo la risposta definitiva.
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