Procedura, la trappola che ci manda in bestia. E il sintomo di un eccesso di burocrazia

La procedura è diventata un alibi. Per non assumersi responsabilità, per essere indifferenti. Il caso dei medici, ormai prigionieri di norme e carte da firmare

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Una ragazza sedicenne entra in un ospedale con la febbre altissima, attacchi di tosse e brividi di freddo. Dopo due giorni, viene dimessa, torna a casa e muore. La prima risposta che i medici dell’ospedale hanno dato agli inquirenti incaricati dell’indagine, è stata molto secca e sintetica: «Abbiamo seguito la procedura».

ECCESSO BUROCRAZIA

Di fronte alla necessità di navigare nel mare tempestoso del caos, di emergenze che si sovrappongono, anche per il fatto che abbiamo smarrito il senso del tempo e siamo puntualmente in affanno, prigionieri di un eterno presente, abbiamo scoperto una piccola trincea, su misura per l’uomo inerte, dentro la quale possiamo ancora proteggerci. La procedura. E se lo dice la procedura, noi dobbiamo solo obbedire, alla faccia di qualsiasi forma di responsabilità individuale, e di qualsiasi gesto di necessario coraggio.

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Il concetto di procedura è semplice. Lo trovate spiegato in poche parole nella Treccani. Si tratta di un modo di procedere e di comportarsi in determinate circostanze, di fatto attraverso una serie di automatismi, per ottenere un certo risultato. Attenzione: seguite il ragionamento, e non dimenticate l’obiettivo finale della procedura. Il risultato, non il suo contrario come nel caso della ragazza sedicenne morta per un cattivo ricovero ospedaliero.

A forza di un utilizzo sfrenato e compulsivo, uno spreco dal punto di vista delle nostre risorse naturali, la procedura è diventata un alibi. Un modo per lavarsi le mani. Per non assumersi responsabilità, o comunque per schivarle. Per essere indifferenti. Non a caso è una parola che ci troviamo di fronte, come un muro, ogni volta che entriamo nella terra dei sistema complessi, dove la mano dell’uomo è determinante, e non può lasciarsi guidare solo dall’automatismo di una procedura.

Avete presente il rapporto tra il cittadino e la pubblica amministrazione? Quando, per esempio, abbiamo bisogno di documenti che non arrivano o sono in puntuale ritardo? Quando c’è una sempre una firma che manca, una norma da applicare, un comma da valutare? Ecco che a quel punto, finiamo intrappolati dalla procedura. Il burocrate di turno si lava le mani, come Ponzio Pilato, non si assume alcuna responsabilità, prende le distanze da noi, i cittadini che pure avremmo diritto al suo servizio, e alza il cartello del «non possumus». Lo impedisce la procedura.  Non esiste angolo della pubblica amministrazione e in generale degli apparati burocratici, che sono il nervo dello Stato, che non siamo inquinati da un uso distorto e sprecone di questa parola. La procedura.

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Lo stesso discorso, con la stessa violenza, lo subiamo quando da cittadini ci cambiamo gli abiti e indossiamo quelli dei consumatori. Provate ad ascoltare i nastri registrati di treno o di un aereo in un insopportabile ritardo.  Vi arriveranno, come frecciate, una sequenza di frasi stereotipate, tutte impastate di ciò che prevede la procedura. Senza alcuna distinzione. Tra i ritardi: un quarto d’ora è una cosa, due ore un’altra. Tra le persone che li subiscono: il viaggio di un ragazzo che parte per la sua vacanza non è lo stesso di un anziano che cambia città per andare a curarsi. Tra le modalità: restare fermi in una galleria non è la stessa cosa che parcheggiarsi sul binario di una stazione ferroviaria.

La procedura celebra la sua apoteosi quando è abbinata ai messaggi vocali. Quando lo (stupido) automatismo viene associato, grazie alla tecnologia, a qualsiasi (intelligente) invenzione. La bolletta aumenta per procedura. Il ricambio di uno smartphone va ordinato seguendo una certa procedura. E sotto il titolo di questa parola, a suon di numeri verdi, puntualmente di fatto a pagamento, messaggi e offerte varie, finiamo in una vera centrifuga. Dove siamo inermi di fronte alla valanga di messaggi veicolati dalla procedura, da un’ombra che dell’uomo non ha neanche le sembianze.

La procedura assembla e unifica tutto, in un’inutile e disarmante risposta. L’uomo, con la sua ragione e con la sua comprensione, è capace invece, senza con questo contravvenire ad alcuna norma, di dare risposte su misura, rispettando sempre l’unicità della persona e delle sue aspettative. Se non lo fa, ha paura. O non ha voglia di prendersi una responsabilità.

QUANDO SEGUIRE LA PROCEDURA È UN ERRORE

Abbiamo denunciato spesso su Non sprecare la mancanza dei medici, abbiamo raccontato la storia di chirurghi che tornano in camera operatoria dopo la golia degli 80 anni, in un sistema sanitario che rischia il collasso. C’è un imbuto tra la formazione e le corsie, sicuramente. Ma c’è un’altra cosa che tanti medici ci hanno spiegato raccontando la loro esperienza personale: questo mestiere è profondamente cambiato, non è più appassionante come una volta, ed è sommerso da incombenze burocratiche che richiamano l’imperativo di rispettare una sola cosa. La procedura. Rispetto alla quale la salute del paziente viene dopo, molto dopo. Capite bene che, in queste condizioni, un medico, come un professore universitario o un insegnante di scuola elementare, diventano dei figuranti, nel grande palcoscenico di quei servizi che riceviamo sotto lo stretto vincolo di un ossessivo rispetto delle procedure.

E qui arriviamo alla parola che la procedura dovrebbe innanzare come suo vessillo, secondo la definizione che abbiamo visto della Treccani: il risultato. Il rigore di un meccanismo, una catena di comportamenti, non hanno alcun significato se vengono valutati a prescindere dall’effetto finale del meccanismo. Così sono solo cose astratte. Rischiosamente controproducenti. Quando applicate una procedura, se non volete restarne schiacciati e trascinare in questa sconfitta anche il vostro interlocutore, ricordate sempre che la sua esistenza ha un significato se contribuisce a realizzare ciò per cui è nata. Il risultato previsto, appunto, e non il suo fallimento nel buio della mancanza perfino del buonsenso.  

QUANDO LA SANITÀ CI FA ORRORE:

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