A che servono i moderati? La domanda è tornata di attualità nel momento in cui, anche grazie all’attivismo di Mario Monti, si stanno rimescolando le carte della rappresentanza politica. E la prima risposta riguarda proprio il sistema nel suo complesso: i moderati servono a rendere pienamente compiuta ed europea la democrazia italiana. Siamo in Europa e lo ricordiamo (troppo) spesso a proposito del comune destino finanziario, ma lo dimentichiamo quando si tratta di dare una fisionomia alle forze in campo. In Europa, infatti, la rappresentanza politica è presidiata da due grandi schieramenti: il primo di ispirazione socialdemocratica e post-comunista; il secondo, con una significativa ma non esclusiva influenza dei valori cattolici, fa capo ai popolari moderati. La partita elettorale si gioca tra queste due forze politiche, e l’Italia non può essere la solita eccezione nello schema del bipolarismo europeo, salvo poi pagare il pegno di un Paese anomalo e dunque più debole e meno riconosciuto dai nostri alleati.
Una seconda risposta è che, senza un solido ancoraggio dei moderati, si crea un enorme vuoto nel corpo elettorale, dove trovano spazio i nostri “spiriti animali” alimentati dalla politica poco autorevole: demagogia, populismo, estremismo. Fenomeni che preoccupano l’Europa, come si è detto chiaramente nell’ultimo vertice del Partito popolare, dove queste forme di protesta e di intolleranza sono pure presenti, ma vengono depotenziate dal presidio delle due forze concorrenti. I moderati sono come una diga, romperla, o non costruirla, è molto pericoloso. Infine, il moderatismo non è una dottrina ma piuttosto un metodo che presuppone tolleranza e concretezza e interpreta la politica come “arte del possibile”. Il contrario della conservazione pura e semplice, della difesa a oltranza dello status quo, dei privilegi e delle corporazioni. I veri moderati, e non mi riferisco alle loro controfigure, sono riformisti, innovatori, e portatori di un disegno di lungo periodo. D’altra parte non sono stati proprio i moderati, in Italia, a fare riforme radicali, di sistema, come la riforma agraria e il piano-casa? E non sono stati proprio i moderati, in Europa, a guidare, contro i sondaggi e la maggioranza dell’opinione pubblica, quella riunificazione della Germania senza la quale l’Unione non potrebbe esistere? Basterebbero questi esempi per non cedere alla preoccupazione di ritrovarsi con un’etichetta di moderato equivalente a quella di un inerte trasformista: è capitato anche a Mario Monti, nei giorni scorsi, quando il premier ha voluto prendere le distanze da un lessico nel quale invece ha il pieno diritto di ritrovarsi.
Ovviamente, la formazione compiuta di una forza moderata, in alternativa ai socialdemocratici, non esclude la possibilità, come è avvenuto in Germania negli ultimi anni e come con molte probabilità avverrà in Italia nella prossima legislatura, di fasi di leale collaborazione governativa bipartisan. Si tratta di periodi di transizione, condizionati da fattori esterni come la crisi finanziaria e sociale e interni come un responso elettorale di assoluto equilibrio dopo elezioni che non vanno assolutamente sprecate. Poi, chiusa la parentesi bipartisan, il gioco politico torna ad essere una sana competizione tra avversari, e non una lotta tra nemici che non si riconoscono.
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