Marco Zatterin corrispondente da Bruxelles
Torna il carbone, quello che imbruniva le nebbie fitte della rivoluzione industriale. Il protagonista dei racconti duri di Emile Zola e degli incubi dei piccoli uomini che scendevano nel ventre della terra in Vallonia come in Sardegna. Sembrava destinato all’esilio e invece no, l’incidente di Fukushima ha riscritto la storia, rilanciando una risorsa di cui solo un anno fa l’Europa chiedeva la messa al bando entro metà secolo. Tutte le potenze mondiali stanno rifacendo conti e piani, tagliano il nucleare perché l’opinione pubblica lo chiede e, in attesa che le rinnovabili diventino veramente redditizie, si rituffano nel primo oro nero che, per quanto considerato fuori moda, oggi illumina ancora uno lampadina ogni due.
Altro che «decarbonizzazione». Nobuo Tanaka, direttore esecutivo dell’Agenzia internazionale per l’Energia, ha raccontato al Parlamento europeo qualche giorno fa che la disgrazia giapponese ha convinto a dimezzare i programmi per la costruzione di nuove centrali nucleari di qui al 2035. C’erano progetti per 360 gigawatt che ora sono ridotti a 180. Il risultato è che, a livello planetario, la quota di energia atomica passerà dal 14 al 10% del totale. La stima è che un terzo della domanda da ricollocare sarà convogliata sul mercato del carbone. Con due conseguenze problematiche: l’aumento inevitabile dei prezzi di mercato e quello dei costi per ridurre le emissioni «serra».
La domanda mondiale di lignite & Co. ha ripreso a crescere in modo significativo, favorita da Cina e India. Gli analisti prevedono un aumento di oltre il 50% di qui al 2035, rispetto ad una produzione mondiale che nel 2010 è stata di 6,5 miliardi di tonnellate (+ 8% su base annua). Nel complesso, il carbone rimane all’origine del 41% dell’energia elettrica del globo, il 26 in Europa. Ma sono cifre destinate a cambiare. Giuseppe Lorubio, analista di Eurelectric (la Confindustria Ue dei produttori e distributori di energia), ha calcolato che solo la chiusura delle 28 (su 143) centrali europee di vecchia generazione gonfierà il fabbisogno di carbone dell’8-10%.
La Germania, che è il primo consumatore Ue di antracite, ha cominciato un doloroso ritorno, cosa che dovrebbe fare anche la Polonia, che dal fossile corvino potrebbe trarre il 90% dell’energia. Gli inglesi, sospinti da un buon mix fra nucleare, carbone e gas, stanno giocando la carta verde per sostituire le «powerstation» più decrepite. Lo scenario è per il resto stabile, in Europa non c’è più margine per la costruzione di nuove centrali. Occorrerà sfruttare a pieno i margini disponibili.
I signori del carbone assicurano che la loro risorsa è «democratica». Costa relativamente poco e, grazie alla alta intensità di manodopera, difende l’occupazione. Vero. C’è tuttavia un’insidia sociale evidente, se la Commissione Ue ha annunciato di volere un bollino etico per un settore che, soprattutto in Cina e Sudamerica, sfrutta i minori come gli inglesi ai tempi di Dickens. E ce n’è uno di rispetto ambientale, con i diritti per le emissioni di CO2 voluti dall’Ue che saranno a pagamento dal 2013 e peseranno sui bilanci delle Enel di tutta l’Unione.
Ovvio che bisogna inquinare meno, anche perché il carbone è lo stesso di sempre. A mutare sono stati i processi e la micidiale lignite, che ha un alto contenuto umido che sprigiona fra l’altro temibili ossidi sulfurei, viene «asciugata» durante la fase di estrazione e lavorazione. C’è poi il diffondersi dei sistemi di cattura e immagazzinamento del CO2. Si prendono le emissioni, si trasformano in una sorta di liquido e si chiudono in un deposito sotterraneo, come stanno sperimentando Enel e Eni a Brindisi. Roba del futuro, s’intende, con Bruxelles che cerca di portare i Ventisette sulla buona strada, fra reticenze politiche e problemi di bilancio. Ovvio che Fukushima ha costretto a cambiare strategia. Che l’abbia resa più semplice è tutto da vedere.
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