FILANTROPIA IN ITALIA –
Immaginateli seduti a un tavolo da gioco, come se fossero impegnati in una partita a poker. L’ultimo rilancio lo ha fatto Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook, cha ha festeggiato la nascita della sua figlia Max con un annuncio: il 99 per cento del valore delle sue azioni, 45 miliardi di dollari, finiranno in una Fondazione filantropica intestata a lui e alla moglie Priscilla Chan. Prima di Zuckerberg la puntata stellare l’aveva fatta Tim Cook, amministratore delegato della Apple: i suoi soldi andranno tutti in beneficenza, salvo la liquidità necessaria per dare una buona educazione al nipote. E prima ancora, era toccato a Bill Gates, l’inventore di Microsoft, mettere una montagna di soldi, finora 28 miliardi di dollari, per dare risorse alla Fondazione di famiglia, condivisa con la moglie Melinda, impegnata in progetti umanitari nel Sud del mondo, specie in Africa. Dunque, negli Stati Uniti i «signori della nuova economia» non duellano più per scalare la classifica degli uomini più ricchi del mondo, ma si sfidano, reciprocamente, al tavolo della filantropia che in America, appena entri nel club dei benestanti, diventa quasi un obbligo, un dovere prima che una scelta di vita. Musei, ospedali, ricerca, assistenza sanitaria, povertà: non esiste un settore, tra quelli che di solito sono coperti dall’intervento della mano pubblica, dove i miliardari americani non abbiano messo i loro quattrini. Palate di soldi, e un vero welfare parallelo. D’altra parte, il 97 per cento dei cittadini con patrimoni superiore a 5 milioni di dollari, risulta iscritto all’universo dei filantropi. E perfino il 67 per cento di quelli che guadagnano più di 100mila dollari l’anno, sono abituati a fare donazioni in beneficenza.
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FILANTROPI NEL MONDO –
La filantropia non ha confini. E può varcare perfino la soglia della politica, come nel caso di George Soros, sfuggito da ragazzo alle persecuzioni del nazismo. Per dare uno schiaffo al rivale in attività finanziarie, Warren Buffet, finanziatore con un assegno di 2,1 miliardi di dollari della Fondazione di Gates, Soros ha creato una sua associazione filantropica, con una dotazione di circa 10 miliardi di dollari. E negli anni ha aiutato con il suo portafoglio i movimenti di liberazione in Polonia, in Georgia e in Cecoslovacchia. Anche Carlos Slim, il terzo uomo più ricco del mondo, ha investito 8 miliardi di dollari per avere un ruolo centrale a sostegno del suo paese, il Messico. Così, con il suo nome, sono nate tre fondazioni che intervengono nella cultura, nella scuole, nello sport, nella sanità, e anche nel recupero dei centri storici delle più importanti città messicane. Il giovane miliardario cinese Li Wang Yan, che non ha ancora compiuto 30 anni e guida un impero siderurgico, ha reagito, attraverso la filantropia, allo scandalo del massacro dei cani in Cina, dove la carne di questi animali fa parte del menù locale. Yan ha acquistato un ex mattatoio, lo ha ristrutturato e lo ha trasformato in un gigantesco rifugio per cani abbandonati. Tutto a sue spese.
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FILANTROPI ITALIANI –
E in Italia? I numeri non ci fanno onore, se pensiamo che il settore della nostra filantropia vale circa 3,5 miliardi di dollari, 66 volte in meno rispetto al valore negli Stati Uniti e 30 volte inferiore a quello della Germania. La generosità non manca, è molto trasversale e diffusa sul territorio, con interventi di prossimità, talvolta anonimi, per singole iniziative di beneficienza, ma non si vede chi davvero ha la forza e la visione di pensare in grande. Qualche mese fa è stata inaugurato a Bologna l’Opificio di Marino Golinelli, 95 anni, industriale farmaceutico (è suo anche il marchio Sigma Tau), che sulla stampa locale si è conquistato il titolo del «Bill Gates italiano». In una ex fonderia, Golinelli ha voluto creare («solo con soldi miei, e senza un euro dell’azienda» avverte orgoglioso) una sorta di maxi laboratorio per aiutare i giovani ricercatori in progetti innovativi in tutti i settori. Un caso piuttosto isolato, come l’intervento dell’industriale Diego Della Valle per finanziare il restauro del Colosseo, nonostante che si inizino, almeno per i beni culturali, a vedere i primi meccanismi di incentivazione fiscale per i filantropi.
Ma, se vogliamo dirlo con un minimo di onestà intellettuale, non è il tema delle tasse, o della solita burocrazia che rema contro anche quando si tratta di soldi ricevuti in dono, che ci distanzia in termini abissale dalla filantropia in stile americano. C’è innanzitutto una differenza legata a un verbo: restituire. Per il ricco anglosassone, la filantropia, a cavallo tra etica e religione, è un modo concreto per restituire agli altri ciò che la fortuna, prima delle proprie capacità, ti ha donato. Chuck Feeney è un imprenditore di origine irlandese, diventato miliardario grazie al suo gruppo Duty free shoppers, che controlla diversi punti vendita negli aeroporti. Da anni Feeney ha liquidato la sua quota per investirla nella Fondazione Atlantic philantropies che si occupa di istruzione, sanità e diritti civili innanzitutto in Irlanda. «Dovevo restituire qualcosa al mio Paese che mi ha dato tanto…» ha detto Feeney, che oggi vive con un patrimonio di soli 2 milioni di dollari. Ma in compenso a Dublino tutti riconoscono i suoi meriti, e lo definiscono l’uomo che ha fatto di più per l’Irlanda dai tempi di San Patrizio. Infine, nella nostra freddezza con la filantropia conta anche una certa riluttanza a mostrare in pubblico la propria ricchezza. Quasi come se avessimo qualcosa da nascondere, laddove invece il successo di un vita, la genialità di un’intuizione e la passione per un lavoro, in America si misura anche con il gonfiore del portafoglio.
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