FONDAZIONI LIRICHE IN CRISI. L’ultimo atto è il più drammatico. Il Teatro dell’Opera di Roma affonda, un vero suicidio, mentre il cartellone prevedeva l’appuntamento più importante della stagione: cinque recite della «Manon Lescault» di Giacomo Puccini interpretata dalla star internazionale Anna Netrebko, mai vista in Italia, e diretta dal maestro Riccardo Muti, adesso pronto a lasciare il Teatro e la capitale. Siamo all’epilogo di una felliniana prova d’orchestra che da anni, decenni, va in scena attorno alla bolgia delle 14 fondazioni liriche e sinfoniche italiane, sommerse da un debito complessivo di 360 milioni di euro e da una gestione dissennata, corporativa, clientelare e sprecona di istituzioni culturali che invece potrebbero generare ricchezza, lavoro, e perfino crescita economica oltre che civile.
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TEATRI LIRICI IN ITALIA. Il Teatro dell’Opera di Roma balla con incoscienza sul baratro della liquidazione, come il San Carlo che soltanto un miracolo può salvare dalla fine di una storia gloriosa e secolare. E così, salendo e scendendo per l’Italia, questi luoghi della nostra identità e della nostra storia, sono diventati i simboli della nostra decadenza. Di quei vizi che hanno appassito il Paese prima che la lirica e la sua tradizione.
Vediamone alcuni, i più gravi, da vicino. In questi anni di spese fuori controllo, sempre con il contributo essenziale delle casse pubbliche, e di crollo verticale della produttività, a forza di andare indietro, siamo arrivati ai seguenti numeri. All’Opera di Roma si alza il sipario 163 volte l’anno a fronte di una quarantina di milioni di euro di contributi pubblici (dei quali 16,5 li versa un’amministrazione comunale a sua volta sull’orlo del dissesto); a Londra le alzate di sipario sono 359, le opere rappresentate il doppio di quelle di Roma, e i contributi pubblici si fermano a 30 milioni di euro. Stesso impietoso confronto, tutto a danno di Roma e Napoli, se sostituiamo Londra con Berlino e Parigi. C’è bisogno di aggiungere qualcosa per concludere che, anche con la lirica, con una nostra eccellenza, siamo fuori dall’Europa in quanto a efficienza e produttività?
TEATRI LIRICI A ROMA. Seconda anomalia, spia impareggiabile di un corporativismo che ha divorato la rappresentanza e ha trasformato il sindacato, un certo tipo di sindacato, nella rete di protezione di privilegi, ingiustizie, nepotismo, anarchia nella gestione degli uomini e dei teatri pubblici. All’Opera di Roma spadroneggiano cinque sigle sindacali, fino a qualche anno fa erano otto, che se tutto va bene rappresentano una minoranza, molto meno della metà, dei 490 dipendenti del teatro. A loro volta questi sindacati sono divisi sul fronte della felliniana prova d’orchestra: tre sigle, Fias, Libersind-Confsal e Cgil, sono per lo sciopero a oltranza contro fantomatici “comitati di affari” o per una altrettanto fantomatica “guerra di civiltà”; due sigle, Cisl e Uil, invece mostrano un volto più ragionevole, forse nella consapevolezza che si sta consumando l’ultimo atto di una tragedia ( e di una farsa). I veri padroni del l’Opera di Roma in realtà non vogliono negoziare nulla, se non l’esercizio del loro potere che tracima dalla difesa di accordi integrativi, oggi insostenibili, fino al modo con il quale ormai sono abituati e tenere sotto scacco i direttori artistici e i responsabili dei teatri lirici made in Italy.
TEATRI LIRICI NAPOLI. Il maestro Muti che oggi è pronto a fare le valigie da Roma, e a quel punto il mondo ci riderà dietro, è lo stesso che una quindicina di anni fa, durante una prova al San Carlo, si trovò con un flautista che sbatteva nervosamente il dito sull’orologio. «Che succede?» domandò Muti poggiando la bacchetta sullo spartito. «Direttore, dobbiamo fermarci. A questo punto, per contratto, ci spetta una pausa». Fine delle prove, e fine dell’esperienza artistica di Muti a Napoli.
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CONTRATTI INTEGRATIVI. Terza anomalia: quei contratti integrativi, che il Decreto Cultura dell’ex ministro Massimo Bray ha messo nel mirino, considerandoli una delle principali fonti dei conti fuori controllo, e fuori copertura, e dunque dei dissesti finanziari e gestionali, sono una babele di pattuizioni opache e, con la situazione attuale delle casse pubbliche a qualsiasi livello, non più accettabili. Esattamente quanto sta avvenendo in buona parte del nostro welfare, laddove a forza di proteggere sprechi e privilegi, non abbiamo più le risorse per garantire la copertura a nuove necessità ed a chi ha veramente bisogno di essere tutelato dallo Stato sociale. I costi del personale nei teatri lirici assorbono ormai il 70 per cento delle entrate: un rapporto numerico folle, al quale si aggiungono le indennità a pioggia, e le eredità di accordi ad personam, più che nell’interesse di una categoria.
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TEATRO LIRICO SAN CARLO NAPOLI. I conti del San Carlo sono schiacciati in modo irreversibile dal costo di una pensione aggiuntiva che la Fondazione deve pagare ogni anno a circa 300 ex lavoratori del teatro, titolari del diritto a un assegno previdenziale bis. Assegno reversibile, ovviamente, che si è iniziato a versare a dipendenti che sono andati in pensione ancora quarantenni. Intanto, un macchinista che fa onestamente il suo lavoro e non è protetto da qualche potente di turno, vede il suo stipendio, 1.500 euro al mese, a rischio e comunque tagliato del 30 per cento perché la scure colpisce in modo orizzontale e mancano le risorse per premiare chi fa bene il proprio lavoro.
Il Teatro dell’Opera di Roma ha un deficit annuale di 10 milioni e 418mila euro e un debito patrimoniale di 30 milioni di euro. Domanda, banale ma pertinente: possibile mai che ci sia ancora qualcuno che di fronte a questo crack possa solo immaginare di non fare nulla, lasciare tutto come prima e come sempre, tanto poi alla fine paga Pantalone o il Campidoglio? Già, purtroppo è possibile. Anche perché sul fuoco della felliniana prova d’orchestra continua a soffiare quel ceto politico poco responsabile che gioca di sponda con il sindacalismo corporativo, altro fenomeno dell’Italia in ginocchio.
TEATRO DELL’OPERA DI ROMA. I sindacalisti del Teatro dell’Opera di Roma che, come in una sceneggiata napoletana, si sono presentati in pubblico a spiegare le loro ragioni indossando una maglietta con la scritta I love Muti sentono di avere le spalle forti, grazie a chi, come l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, pensa di cogliere al balzo questa protesta per creare ulteriori problemi al suo successore, Ignazio Marino, che certo finora ha dimostrato solo di essere un sindaco sbagliato al posto sbagliato.
L’ultimo atto di tanta follia arriva con cronometrica ripetizione di copioni già visti. Era l’anno di grazia 1999, quando il maestro Giuseppe Sinopoli, artista di spessore internazionale e autentico gentiluomo purtroppo scomparso, gettò la spugna al Teatro dell’Opera di Roma che dirigeva con enorme passione e con assoluta competenza. Lo fece con poche parole, nel suo stile: «Ho dato il massimo, ma è stato inutile. Questo Teatro ormai è a livello di quello di Tunisi, e non può rinascere». Lo presero per un artista capriccioso e umorale, anche loro si gridò contro i fantomatici “comitati di affari” che si volevano impossessare dell’istituzione. In realtà Sinopoli, quindici anni fa aveva capito tutto, e forse l’unico modo per onorare la sua memoria e per sognare una nuova vita dell’Opera, dopo il lungo suicidio, è di augurarsi la sua liquidazione. Più prima che dopo.
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