FUTURO SHARING ECONOMY –
Prima o poi i conti con la realtà bisognava farli. Adesso che la sharing economy non è più un’aspettativa, un nuovo mondo in arrivo, ma una gigantesca holding che fattura 15 miliardi di dollari l’anno e coinvolge circa la metà dei consumatori americani e inglesi, vengono a galla i suoi punti critici, le zone d’ombra. E perfino lo snaturamento del suo paradigma iniziale che ci aveva promesso più partecipazione e meno compulsione negli acquisti, quasi un antidoto alla droga che ha truccato il motore del capitalismo globale esploso con la Grande Crisi del 2008.
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SHARING ECONOMY E BARATTO –
La rivista americana Fast Company, che si occupa proprio di innovazione, ha pubblicato un’inchiesta dal titolo emblematico, La sharing economy è morta. Una provocazione, certo, ma anche il segnale di quanto stia cambiando la percezione di un’economia che ha sostituito il possesso con la condivisione delle cose. Un’economia sulla quale si sono avventati, pronti a scommettere, i grandi azionisti del capitalismo finanziario, quelli che la cultura dello sharing doveva mettere in crisi. Uber, per esempio, è già valutata 40 miliardi di dollari, quattro volte la Hertz, ma la cosa più sorprendete, e critica, è un’altra: la società ha raccolto in pochi anni 10 miliardi di dollari di finanziamenti da parte di banche come Morgan Stanley, Goldman Sachs e Deutsche Bank, che avevamo lasciato sul banco degli imputati per la Grande Crisi e adesso ritroviamo tra i protagonisti del nuovo mondo. Uber, che terrorizza tassisti e noleggiatori, invade il mercato della mobilità con operazioni di dumping, concorrenza sleale e perfino salari sotto i minimi. Più o meno le stesse accuse rivolte a Airbnb, che ogni giorno piazza 12 milioni di ospiti in case e residenze trasformate in bad and breakfast: la sua ultima valutazione è di 24 miliardi di dollari, tre in più della catena Marriot con i suoi 4mil alberghi sparsi in tutto il mondo. E chi controlla Airbnb? Fondi, americani, inglesi e perfino cinesi. Altri signori del denaro facile, come i detestati banchieri. BlaBlaCar, una comunità di 20 milioni di persone che pagano un passaggio in auto, in poche ore ha portato in cassa 200 milioni di dollari, arrivati da fondi di investimento pronti a cavalcare la nuova economia digitale con il vecchio strumento del denaro liquido a buon mercato e di facile accesso.
La pervasività della sharing economy ormai è totale, e non tiene fuori più alcun settore dell’industria e dei servizi. Flubes è una piattaforma che organizza partite di calcetto con quasi 400mila iscritti, mentre le varie comunità del car sharing, nelle sue diverse declinazioni, si presentano con oltre 2 milioni di utenti. Bene: che cosa rischia l’industria dell’automobile di fronte a questa onda lunga che mette in discussione non solo uno status symbol del Novecento, il possesso dell’auto, ma anche uno stile di vita? E quanto può pesare questo cambiamento nel ritardare l’auspicata ripresa economica di cui tanto parliamo ma ancora poco vediamo? Negli Stati Uniti è stato calcolato che, in seguito all’esplosione della condivisione dell’auto, la famiglia media passerà dal possesso, e quindi dall’acquisto, di 2,1 automobili a 1,2. Praticamente la metà, mentre ogni auto condivisa ne rimpiazza 9 possedute. E già oggi 200mila cittadini milanesi non hanno più bisogno di essere proprietari di una vettura per circolare nel centro della città.
La sharing economy rischia di dare una botta anche all’industria dell’abbigliamento e del lusso. Il primo di questi due mercati vale 400 miliardi di dollari, ma l’usato che si intermedia attraverso le piattaforme online è già a 34 miliardi di dollari. E solo su eBay prodotti di fascia alta, marcati Tiffany e Ralph Lauren, valgono un fatturato di 50 milioni di dollari. Nel frattempo, a forza di condividere, ci siamo resi conto che un terzo del nostro guardaroba, è la media in una famiglia italiana, non viene utilizzato. E quindi anche in questo campo una ripresa dei consumi in stile ruggenti anni Ottanta non è certo all’orizzonte.
RISPARMI ECONOMIA DELLA CONDIVISIONE –
Infine, l’economia della condivisione ci ha sempre promesso grandi risparmi. E in qualche modo sta mantenendo alto il livello di questa fondamentale aspettativa, al centro dei nostri pensieri di consumatori: lo scorso anno, ricordiamolo, la parola Risparmio è stata la più ricercata attraverso la porta di Google. Ma talvolta l’equazione condivisione uguale risparmio non regge. Fast Company nella sua inchiesta ha puntato l’indice sul trapano elettrico, l’oggetto-simbolo dell’alba della sharing economy. Ricordate? Considerando il tempo di reale utilizzo di un trapano, si disse, è sicuramente più conveniente affittarlo che non possederlo. Elementare, salvo verifica con la relativa scoperta che in realtà un trapano elettrico su Amazon si paga 30 dollari, e ti arriva in 24 ore, mentre se lo affitti attraverso una piattaforma della sharing economy devi tirare fuori 15 dollari al giorno. Che cosa è più conveniente?
Il capitalismo, come ci ha insegnato l’economista Joseph Schumpeter, è fatto di morti e resurrezioni. Dunque era inevitabile che la sharing economy mettese in moto un meccanismo di “distruzioni creative”, ed era altrettanto prevedibile che il capitalismo tradizionale, ormai dominato dalla finanza abbinata alla tecnologia, scendesse in campo con le sue autodifese. Siamo in una fase di transizione, alla ricerca globale del nuovo modello di sviluppo, e una parola definitiva la diranno loro, i consumatori, e innanzitutto i Millennials, la generazione dei nati negli anni Ottanta che nel 2020 rappresenteranno un quarto della popolazione italiana. Uomini e donne molto diversi dai baby boomer, più spregiudicati e più infedeli negli acquisti di ogni tipo, pronti a cambiare a cavallo sulla base di una sola parola: la convenienza.
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