La pubblicità è l’anima del commercio. E la sostenibilità, in questo momento e così sarà a lungo, è l’anima della pubblicità. Tutto ciò non può che fare bene allo sviluppo sostenibile, ai suoi obiettivi, al cambiamento che propone nel modello di sviluppo, alla necessità forte e chiara di creare ricchezza e occupazione più condivise e meno concentrate nelle mani dei soliti noti. Ma con i messaggi bisogna essere trasparenti. Altrimenti si rischiano effetti controproducenti e si aprono le porte al fenomeno, devastante per la crescita di una consapevolezza rispetto agli stili di vita sostenibili, del greenwashing.
Indice degli argomenti
GREENWASHING
Il termine greenwashing si riferisce a una pratica ingannevole adottata da aziende, istituzioni o altre entità che cercano di presentarsi come ambientalmente responsabili senza adottare realmente pratiche sostenibili.
Questa strategia di marketing mira a capitalizzare sulla crescente sensibilità dei consumatori e del pubblico verso le tematiche ambientali, senza però apportare cambiamenti significativi o reali alle proprie operazioni.
Il greenwashing può manifestarsi in vari modi, tra cui l’uso di:
- Pubblicità fuorvianti
- Etichette ecologiche ingannevoli
- Dichiarazioni esagerate o non supportate su iniziative verdi
- Sponsorizzazioni di eventi o progetti ambientali senza un reale impegno a lungo termine.
Questa pratica non solo inganna i consumatori, ma può anche danneggiare il progresso verso la sostenibilità, ostacolando aziende realmente impegnate in pratiche ecologiche.
Un importante intervento sul tema è stato fatto da Bas Eickhout, eurodeputato e vice-presidente del Gruppo dei Verdi/Alleanza Libera Europea, il quale ha dichiarato: “Le aziende devono essere responsabili e trasparenti riguardo al loro impatto ambientale. Non possiamo permettere che il greenwashing distolga l’attenzione dalle vere sfide ambientali che dobbiamo affrontare con urgenza“.
La pressione verso una maggiore trasparenza e responsabilità è cruciale per garantire che le iniziative ambientali siano autentiche e che il pubblico possa fare scelte informate. Il Parlamento Europeo, insieme a varie organizzazioni non governative e movimenti ambientalisti, continua a lavorare per contrastare il greenwashing e promuovere un futuro più sostenibile e genuino. Ma prima di passare a ciò, cerchiamo di capire come funziona nello specifico il greenwashing.
COME FUNZIONA
Il greenwashing funziona principalmente attraverso l’uso strategico dei media e della pubblicità. Come già accennato prima, attraverso tecniche di marketing ingannevoli, le imprese cercano di creare un’immagine aziendale ecologica.
Questo tipo di aziende, spesso, esibisce certificazioni ambientali di dubbia origine o etichette eco-sostenibili senza alcun controllo indipendente esterno. Insomma, l’intento è navigare l’onda della sostenibilità, inducendo in errore i consumatori che desiderano compiere scelte di acquisto ecologiche.
Un altro meccanismo comune del greenwashing è la promozione di iniziative ambientali marginali o poco significative rispetto all’intero impatto ambientale dell’azienda. Ad esempio, una compagnia petrolifera potrebbe pubblicizzare ampiamente il proprio contributo a un progetto di riforestazione, mentre continua a investire massicciamente in combustibili fossili.
Questo metodo permette all’azienda di deviare l’attenzione dalle sue pratiche più dannose, creando una percezione pubblica positiva che non riflette la realtà delle sue operazioni. Questo a volte è vero anche con la suddivisione del brand in più sottomarche, talvolta difficili da associare a quella principale.
RISCHI
Il greenwashing diventa un rischio in molti contesti. Questo è vero soprattutto in un’epoca in cui è cruciale adottare misure ecologiche autentiche ed efficaci per il futuro del pianeta.
Primo, distoglie l’attenzione e le risorse da iniziative realmente sostenibili. Quando le aziende e le istituzioni impiegano tempo e denaro in pratiche di greenwashing, queste risorse vengono sottratte a progetti che potrebbero avere un impatto positivo sull’ambiente.
Questo può rallentare il progresso verso obiettivi climatici e di sostenibilità, compromettendo gli sforzi globali per affrontare il cambiamento climatico e la degradazione ambientale.
Secondo, il greenwashing mina la fiducia dei consumatori e delle altre parti interessate. Quando le persone scoprono che le affermazioni ambientali di un’azienda sono false o esagerate, la fiducia nei confronti di quell’azienda e, più in generale, delle dichiarazioni ambientali, può diminuire fino a creare scontento e sfiducia anche totale verso anche quei progetti con reale impegno medio ambientale.
Questo scetticismo rende più difficile per le aziende realmente sostenibili ottenere il riconoscimento e il supporto che meritano. Inoltre, può portare a una diminuzione del coinvolgimento pubblico in pratiche ecologiche, poiché i consumatori potrebbero diventare più cinici e meno propensi a credere che i loro sforzi individuali e le scelte di consumo possano fare la differenza.
NORMATIVA
Le nuove regole approvate dal Parlamento Europeo vietano l’uso di termini come “amico dell’ambiente”, “biodegradabile” e “climaticamente neutro” se non supportati da prove riconosciute e certificazioni ufficiali.
Non saranno più permessi gli slogan o diciture basati su schemi di compensazione delle emissioni di CO2, a meno che non siano chiaramente specificati e verificati da terze parti indipendenti. La direttiva impone anche che le informazioni sulla durabilità e riparabilità dei prodotti siano più visibili, promuovendo una maggiore trasparenza per i consumatori.
Sono state effettuate delle modifiche alla direttiva sulle pratiche commerciali sleali (2005/29/CE). Con l’aggiornamento, viene aggiunto il greenwashing alla lista delle pratiche commerciali vietate.
Per le aziende che dovessero violare questi nuovi regolamenti, ci sarebbero:
- Multe fino al 4% del fatturato annuo;
- Divieto di partecipazione a gare d’appalto pubbliche fino a 12 mesi;
- Obbligo di azioni correttive: Le autorità possono richiedere alle aziende di intraprendere azioni correttive entro 30 giorni per cessare di fare affermazioni non conformi o di utilizzare schemi di etichettatura ingannevoli.
I paesi membri dell’UE avranno 24 mesi per recepire questa direttiva nelle loro legislazioni nazionali, con alcuni stati che potrebbero implementare le regole in tempi più brevi, tra cui Francia e Germania.
COME SI RICONOSCE
Riconoscere strategie di Greenwashing può essere complesso. Ma bisogna ricordare dal principio di che tipo di azienda si tratta e di cosa si occupa. Dopodiché, comprendere come agiscono:
- Linguaggio vago e generico
- Assenza di certificazioni riconosciute o rilasciate da enti terzi e indipendenti
- Concentrazione su aspetti secondari: es. la bottiglia di plastica è 100% riciclata però tutto il processo di produzione della stessa resta impattante sull’ambiente allo stesso modo che prima.
- Affermazioni non supportate da prove
- Mancanza di informazioni sull’intero processo di produzione
- Contraddizioni tra quello che l’azienda dice e quello che accade davvero
COME SI CONTRASTA IL GREENWASHING
Se da un lato l’Unione Europa resta una delle realtà più attive nel mondo contro queste pratiche ingannevoli, anche noi, per quanto possibile, possiamo fare la nostra parte. Ecco alcuni consigli per non cadere in questa trappola e contrastare il greenwashing:
- Cerca certificazioni affidabili come il marchio FSC (Forest Stewardship Council) o Energy Start.
- Leggi bene le etichette di sostenibilità: da dove provengono? È possibile rintracciare l’origine di questa dicitura?
- Informati bene sul marchio.
- Prediligi lo scetticismo quando le aziende parlano di compensazioni di carbonio.
- Educa te e gli
- Utilizza App certificate o strumenti sul web come AWorld.
ESEMPI
Gli esempi sarebbero davvero tanti, ma in questo caso vogliamo presentarvi 3 esempi che hanno a che fare con alcune delle industrie più impattanti sull’ambiente, ossia fast fashion, automotive e gas&oil.
H&M, come molti dei marchi dove spendiamo nei centri commerciali, hanno dovuto affrontare delle accuse per pubblicità ingannevole e falsa. Ad esempio, questo marchio nel 2022 è stato accusato di praticare greenwashing con la sua linea “Conscious Collection”. Questa linea di abbigliamento era pubblicizzata come sostenibile e rispettosa dell’ambiente, ma un’indagine ha rivelato che molte delle affermazioni ambientali erano esagerate o ingannevoli. Il brand dovette ritirare tutti i capi in commercio della suddetta collezione.
Famoso è il caso di Volkswagen Dieselgate del 2015 dove emerse che il colosso tedesco aveva installato un software ingannevole nei suoi veicoli diesel per manipolare i test delle emissioni. L’azienda aveva pubblicizzato questi veicoli come “puliti” e rispettosi dell’ambiente, ma in realtà emettevano livelli di inquinanti molto superiori ai limiti legali. Volkswagen fu multata per miliardi di euro e ha dovuto richiamare milioni di veicoli in tutto il mondo.
Sul fronte Petrolifero, la compagnia Shell nel 2023 è stata accusata di green-washing per aver esagerato la sua produzione di energia rinnovabile. Un’analisi commissionata da Greenpeace ha rivelato che Shell aveva dichiarato una capacità rinnovabile di 6,4 gigawatt per il 2022. Tuttavia, questa cifra includeva impianti ancora in costruzione o destinati alla vendita. La capacità effettiva di energia rinnovabile alla fine del 2022 era solo di 2,2 gigawatt. Inoltre, la maggior parte degli investimenti di Shell (91%) è stata destinata ai combustibili fossili, con solo una piccola frazione dedicata alle energie rinnovabili. Questo accade per diverse altre compagnie del genere anche presenti nel nostro Paese.
GREENWASHING NATURA SÌ
Siamo rimasti molto colpiti da una campagna pubblicitaria di NaturaSì con un singolare messaggio. Eccolo, testualmente: «Crediamo in un mondo che si rigenera. Non in una società che consuma». Che significa? Stiamo ancora a ripeterci la favola della «decrescita felice»? E poi da parte di un grande gruppo che vive e vegeta sui consumi? Strano, no?
NaturaSì ha un network di 285 negozi, in tutta Italia, con ricavi attorno ai 400 milioni di euro l’anno. Di fatto supermercati, templi del consumo. Possiamo definire NaturaSì un gigante nel settore, molto profittevole, del biologico a 360 gradi, specie per quanto riguarda prodotti alimentari. Inoltre, NaturaSì, e questa è una scelta aziendale, ha puntato alla fascia alta del mercato.
Se andate a dare un occhio nei suoi negozi, li trovate in qualsiasi regione italiana o anche sul web, scoprite che 100 grammi di pomodori targati NaturaSì costano 2,98 euro; 250 grammi di miele circa 7 euro; una confezione di riso (rosa) 5,50 euro al chilo; le penne in versione biologica 2,95 euro per un pacco da 400 grammi. E così via.
Ma allora per quale motivo NaturaSì, come tante altre aziende che parlano con estremo vigore di sostenibilità, sceglie un messaggio così pauperista? L’unica risposta ragionevole che possiamo dare alla domanda, se non entriamo nell’ordine di idee (da escludere) che NaturaSì abbia scelto la strada dell’autolesionismo per vendere i suoi prodotti, si chiama marketing. Piuttosto opaco, dal nostro punto di vista.
In pratica: il messaggio “sostenibile” di NaturaSì, come quello di tante altre aziende incamminate su questa strada di una comunicazione green molto rischiosa, punta dritto al conscio e all’inconscio dei consumatori. Quelli che possono permettersi, grazie al loro potere di acquisto, di sentirsi “sostenibili” e membri di una “società che non consuma”, ovviamente solo sulla carta. Finti poveri. Nei fatti acquirenti a mani basse di tutto ciò che attizza la loro coscienza di cittadini pronti a “rigenerarsi” anche nel momento in cui fanno la spesa.
MARKETING ECOLOGICO
Dove portano messaggi così poco credibili, quando li vai a leggere da vicino, è evidente. La percezione della sostenibilità è sempre più assimilata a un pauperismo di maniera, a una lotta contro i consumi fatta di simbologia e non di realtà, a un sentirsi i primi della classe, non solo rispetto al reddito e alla posizione sociale, ma anche per quanto riguarda le scelte ambientali.
Di questo passo la sostenibilità non solo non si radica, ma semmai separa ulteriormente le società, spaccandole tra ricchi, che possono permettersi di predicare il non consumo e poi consumano come e quanto vogliono (anche a prezzi più alti), e i meno ricchi, o quasi poveri, che invece si sentono consumatori di serie B.
Un conflitto che tenderà a inasprirsi, rendendo il mondo ancora meno sostenibile (e meno rigenerato) e trascinando sempre di più la sostenibilità nel dizionario dei ricchi, con un solo vantaggio. Per chi vende i suoi prodotti grazie a un marketing tanto spinto quanto inverosimile.
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