Vuole partire dal Parlamento? Ci provò, quattro anni fa, Tommaso Padoa-Schioppa, che avrebbe voluto imporre un taglio delle spese correnti, cresciute tra il 2001 e il 2006, al di là dell’inflazione, del 15,2% a Montecitorio e addirittura del 38,8 a Palazzo Madama. Un’impennata inaccettabile. Tanto più che il Paese da anni non cresceva. E subito, nei corridoi delle Camere, si levò un grido di rivolta: «Il Parlamento è sovrano!». Fausto Bertinotti e Franco Marini presero carta e penna e risposero assai piccati che per «autonoma assunzione di responsabilità» avevano deciso di rinunciare ad aumentare i costi in linea con il Pil nominale, accontentandosi dell’inflazione programmata. Come fosse una rinuncia epocale. Risultato: dal 2006 al 2010 le spese correnti di Montecitorio, con la sinistra e con la destra, sono salite ancora del 12,6% per un ammontare di 149 milioni. Quelle di Palazzo Madama del 9,4%, per altri 46 e mezzo. Totale: 195 milioni in più. Negli anni della grande crisi.
Senza ledere alcuna autonomia, né rischiare ricorsi alla Corte Costituzionale, il governo ha in mano una leva: il potere di affamare la politica più insaziabile. E sarebbe un peccato se esitasse a usarla. A partire dal meccanismo che, ipocritamente, sostituì il finanziamento pubblico abolito dal referendum.
I rimborsi elettorali
Ogni cittadino italiano (senza considerare i contributi ai gruppi parlamentari o ai gruppi consiliari regionali) spende per mantenere i partiti circa 3 euro e 30 centesimi l’anno. È molto più rispetto alla Spagna (2 euro e 30) ma il doppio della Germania (1,61 euro, anche se lì vengono finanziate pure le fondazioni che ai partiti sono strettamente legate) e due volte e mezzo rispetto alla Francia (1,25 euro). Giulio Tremonti e Vittorio Grilli lo scorso anno ci avevano provato, a ridurre i rimborsi del 50%. Battaglia persa: il taglio fu ridotto al 30, poi al 20, poi al 10%. La motivazione? Inconfessabile: il rischio che con i partiti a corto di soldi la corruzione avrebbe ripreso vigore. La risposta è nella umiliante classifica di Transparency appena pubblicata, dove per onestà amministrativa siamo sessantanovesimi. Un’impennata del 1110% in un decennio dei rimborsi elettorali non ha alcuna giustificazione. È cambiato il mondo, rispetto all’anno scorso. Se il nuovo premier vuole può riprovarci, a tagliare lì. E vediamo chi avrà il fegato di votargli contro.
«Total disclosure»
Sulla trasparenza basterebbe copiare il Regno Unito. Introdurre cioè l’obbligo di pubblicare su Internet non solo i redditi e le situazioni patrimoniali di tutti i parlamentari e i titolari di cariche elettive, ma anche gli interessi economici che fanno capo a ciascuno. Identico obbligo di trasparenza dovrebbe valere per i contributi privati ai partiti e ai singoli politici, oggi consultabili solo da chi fisicamente si presenta a un certo sportello della Camera. Vanno messi tutti su Internet, cominciando con l’abolire il limite dei 50 mila euro introdotto nel 2006 al di sotto del quale quei versamenti possono restare occulti. In Inghilterra Tony Blair, lasciando Downing Street, fu costretto a mettere in vendita 16 dei 18 orologi (due li comprò a prezzo di mercato) che gli aveva regalato il Cavaliere: che da noi si possano segretamente donare 100 milioni di vecchie lire a un partito è assurdo. Va da sé che in parallelo, finalmente, dovrebbe essere imposto a tutti i segretari amministrativi l’obbligo di certificazione dei bilanci.
Benefici fiscali
Basta un decreto per spazzare via la più indecente delle leggine, quella che spiega come «le erogazioni liberali in denaro» a organizzazioni, enti, associazioni di assistenza si possono detrarre dalle imposte per il 19% fino a un tetto massimo di 2.065 euro e 83 centesimi. Tetto che per i finanziamenti politici è cinquanta volte più alto. Di qua un risparmio di 392 euro per chi regala 100.000 euro alla ricerca sulle cardiopatie infantili, di là uno di 19.000 per chi versa la stessa somma ad Alfano o Bersani. I risparmi non sarebbero molti? È una questione di principio. Ineludibile.
Bilanci
Tutti i rendiconti (dallo Stato a quelli degli enti locali) devono essere resi omogenei, confrontabili e leggibili. I capitoli di spesa devono essere chiari e trasparenti. Un esempio? Spulciando nel bilancio di palazzo Chigi il neoarrivato Mario Monti troverà 50 milioni di euro sotto la voce opaca «Fondo unico di presidenza»: che cosa sono? Spese di rappresentanza?
Dotazioni delle Camere
Secondo l’istituto Bruno Leoni per mantenere il Parlamento ogni cittadino italiano spende 26,33 euro, contro 13,60 di un francese, 10,19 di un britannico, 5,10 di un americano. Camera e Senato, mentre votano una manovra con tagli che spingono al pianto il ministro Elsa Fornero, continuano a chiedere allo Stato sempre gli stessi soldi fino al 2014? Se davvero non si può, come dicono, interferire nella loro autonomia, il governo potrebbe tuttavia ridurre la loro dotazione a carico del Tesoro. Tanto più che a Montecitorio e Palazzo Madama c’è un tesoretto accumulato fra avanzi di amministrazione e fondi «di solidarietà» che si aggira sui 700 milioni di euro. Con la crisi che c’è, rompano quel loro «salvadanaio».
Palazzo Chigi
La presidenza del Consiglio è arrivata a occupare 20 sedi in un progressivo gigantismo che ha ridicolizzato le promesse di asciugare l’apparato che oggi occupa circa 4.600 persone: più del triplo del Cabinet office, la corrispondente struttura del Regno Unito. Per farlo, però, è fondamentale una norma che riporti la presidenza del Consiglio sotto la Ragioneria generale dello Stato, com’era fino al 1999 (senza rischi né umiliazioni per la democrazia…) prima che D’Alema rivendicasse l’autonomia finanziaria.
Vitalizi e pensioni
Stravolte pesantemente le pensioni di alcuni milioni di italiani, è essenziale un segnale dall’alto netto. Quello arrivato finora, che fa scattare il contributivo dal 2012 per i vitalizi parlamentari, è insufficiente. E anche qui è assai discutibile che il governo sia impossibilitato a intervenire. Potrebbe infatti decidere un prelievo eccezionale sugli altri redditi dei titolari di vitalizi parlamentari o regionali, più elevato per coloro che ancora non hanno raggiunto l’età per la pensione di vecchiaia. Sono diritti acquisiti? Lo erano anche quelli dei cittadini che si sono visti «cambiare il contratto» che avevano firmato con lo Stato quando erano entrati nel mondo del lavoro.
Di più: oggi deputati e senatori che durante il mandato istituzionale intendono continuare ad accumulare anche la pensione, possono farlo versando soltanto il 9% della retribuzione relativa alla loro vecchia attività: magistrato, professore, medico, dirigente d’azienda… Il restante 24% è un contributo figurativo che grava sulle casse dell’ente di previdenza. Cioè quasi sempre dello Stato. Porre l’intero 33% a carico del beneficiario sarebbe una misura di giustizia elementare.
Regioni
È dimostrato che un consiglio regionale come quello della Lombardia e dell’Emilia-Romagna possono funzionare con un costo di circa 8 euro a cittadino. Molto dignitosamente. Applicando questo standard a tutte le regioni (alcune arrivano a costare procapite 50 volte di più) si potrebbero risparmiare ogni anno 606 milioni di euro. Lo Stato non può intervenire sulle autonomie regionali, pena l’immancabile causa alla Consulta? Il governo potrebbe aggirare l’ostacolo decretando un taglio ai trasferimenti alle Regioni corrispondente alla differenza fra gli 8 euro procapite e la spesa attuale.
Gettoni di presenza
Equiparare i livelli dei gettoni di presenza nei consigli comunali, spesso diversissimi da città a città nella stessa Regione (45,90 euro a Padova, 92 a Treviso, 160 a Verona) è urgentissimo. Si fissi un parametro basato sulla popolazione e fine. Altrettanto urgente è frenare gli abusi resi oggi possibili dalle leggi sugli enti locali. Un consigliere comunale di Palermo, come abbiamo raccontato, può arrivare a intascare 9 mila euro al mese. Ricordate? Per legge il Comune deve compensare il datore di lavoro per le ore perdute dal consigliere a causa degli impegni istituzionali. Capita quindi che qualche consigliere, in precedenza disoccupato o con una retribuzione modesta, si faccia assumere appena eletto da un’impresa di famiglia con uno stipendio stratosferico: il Comune non ha scampo, deve pagare all’azienda «amica» i «danni» per quel consigliere perennemente impegnato in municipio. Una pratica molto diffusa, da stroncare: non c’è posto al mondo dove un consigliere comunale, in gettoni e rimborsi vari, possa guadagnare 10.000 euro al mese.
Auto blu
Lo Stato vuole avviare un grande piano di dismissioni del patrimonio edilizio pubblico? Bene. Ma perché non fare la stessa cosa con lo sterminato parco di auto blu, mettendole in vendita? Ne guadagnerebbe anche l’immagine della politica. Si dirà che il maggior numero di auto blu è in periferia, e su quelle il governo non può intervenire. Fissi degli standard, basati sulla popolazione e la chiuda lì.
Voli blu
In Inghilterra tutti i voli di Stato sono sul web: aeroporto di partenza, di arrivo, chi c’era a bordo, dove andava e perché aveva quel tale ospite con nome e cognome. La sola trasparenza, possiamo scommettere, ridurrebbe moltissimo decolli e atterraggi. Con risparmi conseguenti.
Scorte
Che per Roma girino ogni giorno otto auto di scorta a politici e magistrati contro una sola gazzella dei carabinieri o volante della polizia impegnata sul fronte della sicurezza dei cittadini è inaccettabile. Il ministro degli Interni Anna Maria Cancellieri lo sa. E sa quanto i cittadini aspettino un segnale: più auto per la sicurezza, meno per le scorte.
Dirigenti
Il governo Prodi aveva introdotto il tetto alle retribuzioni dei dirigenti pubblici intorno ai 289 mila euro lordi l’anno. Una norma che aveva fatto a lungo discutere finché con Berlusconi era stata sostanzialmente svuotata. Non sarebbe il caso, visti i tempi, di ripristinare il tetto? Vietando, soprattutto, cumuli inaccettabili come quelli di cui godono alcuni magistrati i quali incassano lauti stipendi da componenti di authority continuando a percepire la retribuzione da magistrato «fuori ruolo»?
Conflitti d’interessi
L’Italia è il Paese dei conflitti d’interessi e intervenire a tutto campo è laborioso. Ma alcune cose si possono fare subito. Perché non stabilire che per i consigli delle società pubbliche (tutte, senza esclusione) non ci possano essere più di tre amministratori? E perché non vietare per almeno cinque anni a chi ha avuto un incarico elettivo o di governo di diventare consigliere? Sparirebbero d’incanto molte delle circa 7 mila società controllate da enti locali e Stato. Almeno quelle che servono solo a dare una poltrona ai trombati. I risparmi? Considerevoli: gli amministratori e gli alti dirigenti di quelle società sono 38 mila. Ancora più urgente, però, è fissare un paletto insuperabile: chi governa ha il diritto di scegliere gli amministratori delle società pubbliche o miste. Ma deve anche rispondere dei bilanci che essi presentano: basta con i buchi colossali che emergono da bilanci «distrattamente» approvati nella speranza che poi, a tappare la voragine, arrivi lo Stato.
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