La vendita del gruppo Valentino al fondo sovrano del Qatar per 700 milioni di euro non sarà, purtroppo, l’ultimo pezzo del made in Italy a finire sotto il controllo di mani straniere. Il tessuto del nostro capitalismo, e dei suoi pezzi più pregiati, sconta un deficit del sistema Paese abbinato allo scarso coraggio dei nostri imprenditori, molto bravi a criticare i vizi della politica e del settore pubblico ma incapaci, in tempi di burrasca, di difendere con coraggio le nostre postazioni.
Si ripete così il triste copione della Parmalat, un’azienda risanata dopo il crack e le acrobazie finanziarie della famiglia Tanzi, finita sotto il controllo dei francesi, spietati predatori in un settore strategico, quello alimentare, dell’industria italiana. In un colpo solo, nel caso di Parmalat, i francesi hanno portato a casa una montagna di cash, un marchio di enorme valore e un’importante quota di mercato. E oggi, non a caso, mentre Valentino finisce agli arabi, ricchi e felici di conquistare i nostri marchi, proprio in Francia si sta assistendo a un fenomeno di segno opposto: i grandi gruppi nazionali del lusso procedono per integrazioni e acquisizioni verso quei maxi-poli indispensabili a reggere la forza d’urto della concorrenza globale.
La Francia, come la Germania, si rafforza nell’area manifatturiera, mentre l’Italia è sempre più terra di colonizzazione. Questa è la realtà. E in queste condizioni sarà difficile proteggere anche gli ultimi gioielli di famiglia dell’industria pubblica, pensiamo alle aziende del gruppo Finmeccanica, e perfino alcune banche di sistema, come Unicredit, dove mani forti sono all’attacco anche grazie ai prezzi a sconto dei titoli con un Borsa in caduta libera. Per nostra fortuna, e contrariamente ai soliti profeti delle privatizzazioni a buon mercato, si difendono con onore colossi come Enel e Eni, ben gestiti, blindati nel controllo dello Stato e con manager che non si sono lasciati corrompere dalle pressioni della cattiva politica e degli oscuri clan del malaffare.
Il capitalismo italiano, sempre a corto di capitali e spesso di veri capitalisti, è entrato in una zona grigia nella quale le dismissioni diventano quasi una scelta scontata, senza alternative. E trascinano, nella stessa onda del declino, anche la perdita di competenze, creatività, risorse umane e professionali, che hanno fatto grande e unico al mondo il made in Italy. Quando un gruppo come Valentino finisce in mani straniere è un’intera filiera produttiva che scompare all’orizzonte del nostro sistema industriale. Esattamente il contrario di quanto è avvenuto durante la lunga epopea del boom economico, quando coraggiosi capitani d’industria, già all’epoca a corto di risorse finanziarie, si sono avventurati alla conquista di mercati e postazioni industriali in tutto il Pianeta. Il declino dell’Italia passa anche dalla perdita di quella energia vitale, di quella forza misteriosa che ci ha fatto sognare quando certo non eravamo iscritti di diritto al club delle nazioni più evolute e siamo diventati, in un lampo, una potenza industriale.
Infine, un’ultima considerazione con particolare riferimento al Mezzogiorno. Quella di Valentino è una pura cessione, una resa in termini economici generali, e non un investimento produttivo degli stranieri in Italia. Il contrario di quanto abbiamo bisogno e di quanto il governo dovrebbe favorire anche attraverso una scelta politica forte, come la nomina di un commissario per il Mezzogiorno che almeno concentri nelle sue mani tutti i passaggi e le autorizzazioni necessarie a nuovi investimenti stranieri nelle regioni meridionali. Gli stranieri, specie se ricchi e solidi, ci servono: ma per fare crescere la nostra economia, non per trasformarci in una terra di conquista.
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