Questo testo è l’Introduzione del libro Il Mito infranto: come la falsa sostenibilità ha resto il mondo più ingiusto (Codice Edizione)
Sostenibilità è la parola più usata del momento. Ma a forza di appiccicarla ovunque, ne abbiamo smarrito il significato essenziale: non esiste una sostenibilità che possa prescindere dalla riduzione delle diseguaglianze, da una distribuzione meno concentrata della ricchezza, dall’abisso che separa un mondo dove in una stanza si crepa e nell’altra si spreca. Quanto sta avvenendo va in una direzione opposta e una falsa applicazione della sostenibilità sta peggiorando in modo sostanziale gli equilibri del Pianeta. Prima di inabissarsi nella palude della sua impotenza, frutto avvelenato dei veti incrociati che ne paralizzano il funzionamento, l’Onu è riuscita a dare una bussola universale con un’Agenda per lo Sviluppo sostenibile scolpita in 17 obiettivi da centrare entro il 2030. Nessuno sarà realizzato per la scadenza fissata. E la prima parte dell’Agenda non riguarda i fattori ambientali ma gli effetti più visibili e concreti delle diseguaglianze: azzerare la fame e la povertà, assicurare la salute e l’istruzione a tutti, raggiungere la parità di genere.
La vera sostenibilità è la radice di un nuovo modello di sviluppo in grado di rimettere in movimento l’ascensore sociale, allargare il benessere, offrire opportunità di crescita a tutta la popolazione. La falsa sostenibilità invece ha reso il mondo più ingiusto, creando nuove fratture, nuovi muri, nuovi privilegi a vantaggio di ristrette minoranze. Non esiste un bene di consumo, dai generi alimentari all’abbigliamento, dagli elettrodomestici ai prodotti per l’igiene, che non abbia la sua versione green. Pagata a caro prezzo perché tutto ciò che viene marcato con il timbro della sostenibilità costa di più della versione normale. Una élite di donne e uomini ha conquistato lo status di consumatori verdi, mentre la maggioranza annaspa per non rinunciare al suo tenore di vita, con l’andamento degli stipendi e dei salari che non riesce neanche a coprire l’inflazione. L’effetto è devastante e rovescia le più elementari leggi delle società inclusive, dove i consumi condivisi rappresentano il primo segnale di un benessere che si allarga e di un ceto medio che si rafforza. La falsa sostenibilità, introdotta come un marchio di fabbrica, significa una radicale separazione nell’universo dei consumatori: lusso, ricchezza e benessere da una parte; impoverimento e rancore sociale dall’altro versante.
Sicuramente l’auto elettrica rappresenta il futuro della mobilità sostenibile. Ma al momento se la possono permettere soltanto persone con alti redditi e solidi patrimoni, che tra l’altro beneficiano di generosi incentivi pubblici pagati da tutti. Chi è incluso nella cerchia dei fortunati, si sente con la coscienza virtuosa del cittadino impegnato a ridurre l’inquinamento; chi è escluso, deve fare i conti con i continui aumenti della benzina, e non può che provare rabbia e invidia per gli automobilisti green e per chi li favorisce. La dieta mediterranea, come dimostra un’intera letteratura scientifica, è una polizza di longevità, buona salute, benessere fisico e psichico. Nata come un’alimentazione povera, è diventata, per effetto dell’aumento dei prezzi del cibo di qualità con il marchio della sostenibilità, il menù del lusso a tavola: i consumatori verdi la esibiscono come una parte integrante del loro stile di vita, gli altri di devono accontentare del cibo-spazzatura, sempre a buon mercato, con tutte le conseguenze che ne derivano per la loro salute.
Le malattie croniche, che stanno peggiorando la salute di milioni di persone, dall’obesità all’insonnia, dal diabete ai problemi respiratori, hanno un tasso di crescita inversamente proporzionale ai livelli di reddito della popolazione. Nelle grandi città, che si fanno concorrenza a forza di slogan sulla sostenibilità, le patologie più gravi aumentano a mano a mano che si passa dai quartieri del centro alle periferie. Il contrario di quanto l’Onu ha scritto nella sua Agenda per lo sviluppo sostenibile, dove ha tracciato il profilo di una città sostenibile, definendola “inclusiva, sicura e duratura“.
Ogni anno è più caldo del precedente, in qualsiasi latitudine del Pianeta. Eppure la crisi climatica non è uguale per tutti: il prezzo pagato per l’aumento degli eventi estremi (alluvioni, siccità, bufere, frane, terremoti, etc…) è molto diverso nelle aree del mondo, paesi ricchi e poveri, sempre più separate da condizioni di vita e sistemi di prevenzione non comparabili. Dal 1990 i paesi ad alto reddito hanno registrato livelli minimi di decessi in seguito a eventi estremi, sempre inferiori allo 0,1 per cento per centomila abitanti, con l’unica eccezione del 2011 quando ci furono lo tsunami e il terremoto in Giappone. Nello stesso periodo, nei paesi a basso reddito si sono contati fino a venti morti per centomila abitanti in seguito a disastri naturali collegati alla crisi climatica. In Italia l’estate ormai è diventata una stagione lunga cinque mesi, le giornate tropicali (quando le temperature non scendono, neanche di notte, sotto i 20 gradi) raddoppiano ogni anno, in tutte le regioni. Ma entro il 2050, per effetto dello stesso fenomeno del continuo aumento delle temperature, si conteranno oltre 200 milioni di migranti climatici, in fuga da tre aree del mondo: Africa, Asia e Sud America.
Cha cosa può cambiare in modo sostanziale questa deriva? I fattori decisivi sono due. Il primo chiama in causa i nostri stili di vita, i gesti quotidiani, ciò che Benedetto Croce definiva “le piccole finestre dalle quali si sognano grandi cose”. Tutti ci lamentiamo per la crisi climatica, per l’inquinamento, per l’impoverimento delle risorse naturali, ma nessuno vuole davvero rinunciare a qualcuna delle proprie abitudini. La tecnologia ci schiavizza, ci rende prigionieri della sua funzione per trovare l’indirizzo di una strada o per sfogare il nostro primitivo narcisismo sui social, ma non la riusciamo a usare fino in fondo per ridurre i rifiuti e la plastica, eliminare gli sprechi, non insozzare strade, marciapiedi, spiagge, sentieri di montagna. Per piantare alberi e non tagliarli per fare spazio all’ennesimo abuso edilizio in attesa di condono.
Il secondo fattore riguarda la sfera della politica. Nessuno può negare i benefici della globalizzazione, ma la realtà ci dimostra che tutto è diventato globale, monete, mercati, merci, manodopera, tranne i governi. Il nervo scoperto della globalizzazione è in questa asimmetria tra i cambiamenti dell’economia e i ritardi della politica. La perdita del suo primato, anche per effetto dell’inarrestabile avanzata della dominazione della tecno-finanza, ha svuotato gli organismi internazionali, proprio nel momento in cui ne abbiamo più bisogno. E la vera sostenibilità non può non poggiare su decisioni che hanno conseguenze globali, e non regionali. In Europa, Italia compresa, potremo sempre essere i primi della classe nella diffusione dell’energia da fonti rinnovabili, sicuramente un tassello dello sviluppo sostenibile, potremo moltiplicare all’infinito gli impianti fotovoltaici da balcone, ma tutto ciò serve a poco, in termini di riduzione delle emissioni nocive, se intanto Cina e India, per legittimi interessi nazionali, moltiplicano la costruzione di nuove centrali a carbone. Cosa possiamo obiettare, dalle nostre terrazze di campagna illuminate con i pannelli solari, al governo indiano che punta all’immediatezza del carbone per portare l’energia nelle campagne del Paese dove ancora si cucina con lo sterco delle pecore? Siamo così ingenui da pensare che la Cina possa rinunciare alla sua sicurezza energetica per accontentare l’America che intanto con la devastante tecnica del fracking è diventata tra i primi esportatori al mondo di petrolio? Le scelte politiche che contano per la vera sostenibilità si fanno nelle sedi internazionali, dove ormai ci siamo rassegnati a collezionare fallimentari riunioni. Come le fantomatiche, annuali Conferenze mondiali sul clima, dove comandano i lobbisti delle energie a base di combustibili fossili, innanzitutto gas e petrolio, la cui produzione è ai massimi storici. E anche loro si presentano come paladini della sostenibilità.
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