di Leonardo Becchetti www.fondfranceschi.it/cogito-ergo-sum
Il governo annuncia l’abbandono del nucleare e il ministro Tremonti propone un piano di finanziamento tramite Eurobond della ricerca sulle fonti rinnovabili. Sembra purtroppo che ci sia sempre bisogno di una grave crisi o addirittura di una catastrofe perché la maggioranza dell’opinione pubblica, le istituzioni e la politica capiscano quello che le minoranze hanno teorizzato e proposto di attuare con decenni di anticipo.
C’è stato bisogno di una catastrofe per capire che del nucleare potevamo benissimo fare a meno. Che i costi, i tempi, i rischi, la gestione delle scorie non giustificavano un investimento che avrebbe sottratto risorse preziose alla ricerca sulle rinnovabili; i tassi di crescita del progresso tecnologico fanno capire già oggi che queste fonti di energia potranno coprire presto quasi tutto il fabbisogno necessario.
C’è stato bisogno di una grave crisi finanziaria affinché le maggioranze e i leader superassero il tabù (e la finzione) che non fosse possibile tassare le transazioni finanziarie per raccogliere risorse per i beni pubblici globali, per scoprire che tasse di questo tipo esistono, finanziano le borse, hanno costi amministrativi inferiori alle altre tasse e non provocano fughe di capitali quando le aliquote sono ragionevolmente basse.
Abbiamo bisogno di una qualche crisi idrica per capire che il modo migliore per gestire questa risorsa preziosa non è quello di affidarlo a imprese che hanno l’obiettivo di massimizzare il benessere degli azionisti?
Un problema trasversale che va dall’acqua alle banche è la difficoltà di comprendere il “terzo genere” in economia. I nostri schemi culturali sembrano concepire soltanto due modelli: il privato che massimizza il profitto o il pubblico che si caratterizza per l’inefficienza, ignorando quello che già accade sul campo. L’economia sociale di mercato (banche etiche e cooperative con finalità sociali prossime ai cittadini, controllate dai soci) ha retto meglio degli altri due modelli la crisi finanziaria. In molti paesi del mondo, dagli Stati Uniti al Burkina Faso le organizzazioni delle comunità di utenti gestiscono le risorse idriche. Abbiamo anche dato un premio nobel per l’economia a chi ha teorizzato questo terzo genere (Elinor Ostrom) ma tardiamo a tradurre in fatti questa scelta.
Per quei politici che vogliono guadagnare tempo (sperando che non debbano passare ancora molti anni) suggeriamo qualche altra pista.
Il futuro ci costringerà a integrare sempre di più le dimensioni della soddisfazione di vita, dello sviluppo economico e della sostenibilità ambientale spostando il nostro obiettivo dalla crescita del PIL tout court alla “felicità economicamente sostenibile”. Detto altrimenti, una semplice relazione matematica ci suggerisce che l’aumento dell’efficienza energetica generato dal disaccoppiamento tra creazione di valore economico e consumo di risorse naturali deve compensare la crescita della popolazione e del reddito pro capite se vogliamo migliorare e non peggiorare la nostra impronta ecologica ed evitare l’insostenibilità ambientale. Possiamo farlo agendo su tutte e tre le variabili. Investendo sulle tecnologie che migliorano l’efficienza energetica, dematerializzando l’economia e capendo (basta guardare il rapporto reddito/felicità) che è possibile mantenere gli stessi livelli di soddisfazione di vita se non aumentarli con molti meno oggetti inutili di quelli di cui oggi disponiamo.
Per dirla con un paradosso, si può creare lo stesso ammontare di valore economico (necessario per pagare i debiti, creare occupazione, finanziare beni e servizi pubblici) con una produzione fatta solo di rasoi usa e getta o con una produzione fatta solo di poesie vendute via internet. Il disallineamento tra creazione di valore economico e distruzione di risorse naturali si attua muovendosi verso il secondo e non verso il primo estremo. Un economista geniale come Tibor Scitovsky aveva ben compreso il paradosso tra beni di comfort e beni di stimolo. Un sistema che ci sommerge di beni di comfort crea consumatori passivi e infelici che non investono nelle proprie virtù e nelle proprie abilità, ovvero in quelle dimensioni costitutive della nostra soddisfazione di vita. L’"overconsumo" diventa lo sfogo delle proprie frustrazioni e della povertà relazionale e di senso generando un circolo vizioso.
Un’economia più snella che riduce i beni di comfort e aumenta quelli di stimolo consente ai consumatori di investire nelle proprie capacità portandoci nella direzione della felicità economicamente sostenibile.
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