Un tempo molti italiani nascondevano i loro quattrini in Svizzera per paura. Erano gli anni dell’inflazione a due cifre, dei comunisti che minacciavano la libertà d’impresa, delle fabbriche picchettate e ingovernabili. Adesso, scorrendo la “lista Falciani” con quasi 6mila nomi di grandi evasori nascosti in una filiale della Hscp di Ginevra, viene fuori uno spaccato del Paese dei furbi che hanno un solo obiettivo: non pagare le tasse. Ci sono stilisti famosi, protetti da una sorta di impunità del sistema dell’informazione; star e starlette del mondo dello spettacolo; medi e piccoli imprenditori; professionisti e commercianti. Un mondo trasversale che, purtroppo, è solo la punta di un iceberg , puntualmente accertato dalle statistiche. L’Italia, infatti, ha la maglia nera in Europa del reddito imponibile che non viene dichiarato (il 54,5 per cento del totale) per un valore di oltre 159 miliardi di euro l’anno. Siamo avanti, in questa classifica della vergogna, a paesi come la Bulgaria, la Romania, l’Estonia e la Lettonia che pure soffrono di una condizione generale di illegalità diffusa. E la tendenza, nonostante il buon lavoro dell’Agenzia delle entrate guidata da Attilio Befera, è al peggioramento: negli ultimi dieci mesi la fedeltà dei contribuenti è scesa di altri nove punti. Se aggiungete all’evasione il fenomeno parallelo dell’economia sommersa, calcolata attorno al 25 per cento del pil, viene fuori un Paese che vive in nero e accentua, di conseguenza, il carico delle imposte sulle categorie, come i pensionati o i lavoratori dipendenti, che invece non possono sfuggire al fisco.
Di fronte a un sistema così poroso, di fronte a comportamenti di interi pezzi di categorie e non di sparute minoranze, è chiaro che le leggi e le azioni degli organismi inquirenti non possono bastare. Bisogna mettere in moto dei meccanismi di autocontrollo, dal basso della società, creando anche conflitti di interessi tra chi gode dei benefici dell’evasione impunita e chi invece ne paga il conto. Il primo meccanismo riguarda la cultura del cittadino-contribuente. Fino a quando l’evasione sarà così diffusa diventerà impossibile, per ogni governo, ridurre in modo sostanziale il debito pubblico, con un danno per l’intera collettività. E diventerà pura propaganda qualsiasi promessa di un taglio delle tasse (che pure il governo Berlusconi aveva annunciato), inchiodate a dei livelli insostenibili per i contribuenti corretti, persone fisiche o società di capitale che siano. Una volta che gli italiani capiranno il doppio danno ricevuto dall’esercito dei furbi, allora forse potrà diventare efficace un secondo deterrente contro l’evasione: l’esclusione sociale, e quindi l’emarginazione, dei principali responsabili dell’impoverimento del Paese. In molti paesi, come per esempio l’America, il reato di evasione è considerato uno dei più gravi, proprio perché colpisce non un singolo cittadino ma l’intera comunità, e quando sei colto con le mani nel sacco non sfuggi alla galera. E prima ancora della giustizia arriva la scure degli amici, dei compagni di lavoro, dei vicini di casa, che ti considerano come un appestato. In Italia sappiamo bene come la certezza della pena, se e quando arriva una sentenza, sia di fatto inesistente, ma è ancora più grave il particolare che un evasore incallito e accertato non subisca alcuna forma di discredito, e anzi venga quasi encomiato per la sua furbizia. Non esiste un confine che separi, con nettezza, chi vive nell’illegalità da quanti fanno fino in fondo, magari turandosi il naso, il loro dovere di buoni cittadini. Tutto si confonde, in una zona grigia, in una palude che consente ai responsabili di reati così gravi di farla franca dal punto di vista giudiziario e di non pagare pegno sul piano sociale. Viviamo, insomma, l’evasione come un fenomeno di massa, ineluttabile e come tale giustificato, coperto da una sorta di permanente e tombale condono. Con il malinconico e beffardo sottofondo musicale del Così fan tutte del maestro Mozart.
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