IMPATTO AMBIENTALE MODA
Il verde va di moda, è proprio il caso di dirlo. E non solo perché è un colore molto amato nei guardaroba autunno-inverno, ma perché sempre più di frequente le grandi aziende del tessile nascondono dietro progetti ‘green’ di riciclo degli abiti usati, o di riuso dei tessuti altrimenti destinati al bidone dell’indifferenziata qualche trucco di mercato.
Green-washing, si chiama, con una precisione e una chiarezza tipica dell’inglese, che spesso, meno ipocritamente dell’italiano, chiama le cose con il proprio nome: nascondere le malefatte di un’industria multi-milionaria dietro una patina eco-friendly. Di un bel verde brillante.
Ma le cose sono molto diverse, dietro le foto stupende delle riviste di moda, c’è un intero e complesso sistema di economia assolutamente non-sostenibile, sprecona, tanto disattenta quanto complice delle precarie condizioni di vita dei suoi lavoratori e della terra che lo ospita.
A partire dall’inizio della filiera, le industrie tessili.
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SPRECO INDUSTRIE TESSILI
Un recentissimo report della fondazione Ellen Mac Arthur, (in prima linea per sostenere, promuovere e implementare l’economia circolare con tutte le progettualità ad essa connesse), intitolato A new textiles economy: Redesigning fashion’s future, arriva a stimare che entro il 2050 l’impatto negativo sull’ambiente dell’intera filiera andrà a crescere, in termini di consumo di energie non rinnovabili: petrolio per produrre le fibre sintetiche (98 milioni di tonnellate solo nel 2015) e fertilizzanti per far crescere il cotone.
Non solo, la produzione di abiti della moda cosiddetta ‘fast’, il pret-à-porter delle grandi catene di abbigliamento, impatta in maniera molto negativa sul marine litter, la quantità di rifiuti marittimi, in termini di 22 milioni di tonnellate di microfibre scaricate negli oceani, sul buco dell’ozono e sui cambiamenti climatici. Le emissioni di gas serra nella produzione di abiti sono impressionanti: 1,2 miliardi di tonnellate all’anno. Molto, molto di più di quanto facciano, ad esempio, le spedizioni aeree e marittime internazionali nell’arco di dodici mesi. Per non parlare della quantità di sostanze nocive e scarti di lavorazione, che entrano in circolo attraverso aria ed acqua, nuocendo alla salute umana e della biosfera.
C’è di più: circa il 3% della totalità degli abiti prodotti finisce nella pattumiera per errori di fabbricazione, per cifre impressionanti di 80-100 miliardi di abiti ogni anno. Nelle periferie delle città asiatiche, diventate distretto mondiale del tessile, si accumulano cappotti, abitini, jeans, giacche e chi più ne ha più ne metta, che finiscono direttamente in discarica o negli inceneritori come combustibili per le fabbriche stesse, con conseguenze disastrose per la salute di chi abita proprio quelle zone.
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RICICLO E RIUSO ABITI
Ogni secondo, nel mondo, finisce nella spazzatura l’equivalente di un intero camion di tessuti. Da brividi. Circa la metà della produzione ‘fast-fashion’ viene buttata entro un anno di vita, e tali cifre ci danno la misura di quanto l’usa e getta dei marchi di abbigliamento più in voga sia assolutamente poco sostenibile, inquinante e dannoso. Impatto ambientale notevole e spreco economico: il dossier della fondazione Mac Arthur, nell’ambito della Circular Fibres Initiative, stima perdite di 500 miliardi di dollari l’anno per le aziende (considerando tutte le voci di impatto ambientale e di costi sostenuti) a causa di abiti che vengono a stento indossati e che finiscono subito in spazzatura senza venire riciclati. Soltanto l’uno per cento dei tessuti utilizzati vengono trasformati in nuovi capi.
E’ necessario ripensare a un nuovo modo di produrre fashion, e di fruirne, che parta dai produttori e cambi la mentalità dei consumatori: stop ai progetti emergenziali di recupero degli abiti che sono spesso pubblicità più che vero cambiamento, e spazio a una filiera sostenibile, che privilegi materiali assimilabili dall’ambiente, contrasti la concezione usa e getta dell’abito, migliori i processi di progettazione dei capi per favorirne il riciclaggio (anche attraverso l’implementazione della raccolta degli abiti usati) ed infine utilizzi l’economia circolare per ottimizzare l’uso delle risorse. La stilista britannica Stella McCartney, figlia del ben più famoso Paul, è entusiasta e convinta sostenitrice del progetto, da sempre impegnata a disegnare capi ed accessori con fibre e materiali il più possibile riciclabili, come un’intera collezione creata con una fibra tessile ottenuta dal riciclo della plastica trovata negli oceani.
La palla, però, passa ora ai consumatori, che devono iniziare a ridurre l’impronta ecologica dell’industria globale della moda. Come? Possiamo, per esempio, cercare di allungare il tempo medio di vita di un capo, utilizzandolo per un tempo maggiore dei 3 anni stimati in media, riducendo lo spreco nell’armadio. Oppure comprare secondo necessità, un altro dei consigli di buon senso, così come iniziare a supportare e a partecipare attivamente ai progetti di recupero/riuso/riciclo dei capi usati: ben vengano mercatini dell’usato, start-up come l’italianissima Armadio Verde per ‘rivendere’ capi in buono stato con un meccanismo di scambio, gruppi su Facebook, swap party. Insomma, ogni idea è da vagliare pur di salvare i nostri abiti, a volte nuovissimi e ancora col cartellino, da una sicura fine nel bidone della spazzatura. E in ogni caso, tocca a noi consumatori capire e decifrare i trucchi del green washing applicato al settore dell’abbigliamento e degli accessori. Il cambiamento, spesso, inizia dalle nostre case. E dai nostri armadi.
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