La felicità come un obiettivo politico. Il partito comunista cinese ha deciso di fissare un nuovo traguardo della sua politica, mentre nel paese cresce il malcontento nonostante un boom economico e una crescita del pil che sembrano inarrestabili. Secondo un’indagine della Tsinghua University di Pechino, 9 cinesi su 10 si sentono infelici, anche se vivono nell’onda lunga di uno sviluppo a due cifre e nell’aumento vertiginoso degli acquisti. Ma la ricchezza, specie quella misurata con il pil, non si traduce in felicità, e da qui la sorprendente iniziativa del partico comunista. La faccenda si potrebbe liquidare con una battuta: ma quale felicità può pensare di dare un regime autoritario e dispotico, che non concede le più elementari libertà ai suoi cittadini, e li costringe a vivere in famiglie formate da figli unici? Gli slogan del partito comunista rappresentano un trucco, neanche troppo dissimulato, per conquistare nuovi consensi e per dare al potere della nomenclatura cinese una veste popolare. Ma a parte la scarsa credibilità di chi avanza la proposta, é chiaro che la presa di posizione del governo di Pechino, che in Cina coincide con l’autorità del partito, si iscrive nella discussione in corso in tutto il mondo su come, e con quali strumenti, si può superare la schiavitù del pil. Laddove i parametri quantitativi, innanzitutto la produzione e i consumi, non sono più sufficienti per miusrare il benessere, e tantomeno la felicità, di un popolo. I cinesi sembrano voler risolvere il problema con l’esercizio dei loro metodi autoritari, e quindi non andranno da nessuna parte, e noi occidentali siamo ancora al punto di partenza della discussione. Se é vero che il pil non é più considerato sufficiente a misurare il benessere di una nazione e dei suoi cittadini, ancora non é chiaro con quali elementi vada integrato. Siamo ancora a quello che disse Robert Kennedy, nel marzo del 1968: "Il pil misura tutto, tranne quello per cui vale la pena di vivere"
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