La profonda crisi che colpisce il settore della moda, dal lusso alla fast fashion, ha la sua genesi in una parola sola: avidità. Lo spiega molto bene Imran Amed, fondatore e direttore di Business of Fashion, in un’intervista al settimanale D, un supplemento settimanale del quotidiano La Repubblica, dove i principali ricavi pubblicitari arrivano proprio dal settore della moda.
Faccio una sintesi del ragionamento del personaggio che viene considerato, a livello internazionale, il più autorevole osservatore del settore.
Durante la pandemia, con la gente barricata in casa, l’industria della moda, innanzitutto nella fascia del lusso, si è arricchita grazie al fatto che i consumatori, non potendo fare altro, si sono gratificati con gli acquisti compulsivi di abiti e accessori. I fatturati delle aziende, per dare un’idea, in questo periodo sono cresciuti per l’80 per cento grazie all’aumento dei prezzi, e non per innovazione dei prodotti o per maggiore efficienza.
Poi, tornata la normalità, spiega Amed, l’incantesimo si è rotto: i consumatori hanno capito che i prezzi erano eccessivi e ingiusti, si sono chiesti se fosse ragionevole pagare una borsetta il doppio rispetto solo a qualche anno prima. E hanno fatto un passo indietro. A questo punto i signori della moda, puntualmente ai vertici delle classifiche degli uomini più ricchi nei loro paesi e nel mondo (pensate a Pinault, Arnault, Armani, Ortega, etc..), hanno provato a fare un’altra magia: cavalcare l’onda lunga della sostenibilità, appiccicare su tutti gli abiti e gli accessori l’etichetta green per attizzare nuove seduzioni e nuove domande da parte dei consumatori, e con questa scusa hanno provveduto a fare l’ennesimo aumento dei prezzi. Ma anche questo trucco è stato smascherato. Imran Amed, con i suoi collaboratori, ha misurato ben 30 comportamenti delle aziende della moda, in questi anni, in tema di sostenibilità tanto propagandata (per esempio: uso dell’acqua, emissioni, sostanze chimiche, diritti dei lavoratori). Il risultato dell’attendibile verifica è che i progressi sono stati annunciati, ma mai realizzati.
Grazie alla sua impunità, garantita da generosi investimenti nella pubblicità e nel marketing, l’industria dell’abbigliamento e degli accessori si è inventata la sigla moda sostenibile (che in quanto tale non significa nulla) e ha continuato a fare il suo comodo. Per una maglietta di cotone servono ancora 2.700 litri di acqua, per un jeans anche 7.000 litri; un carico di abbigliamento in poliestere in lavatrice rilascia ancora 700 mila fibre di microplastiche che finiscono nelle pance dei pesci e sulle nostre tavole; le emissioni di gas serra del settore non sono mai diminuite. E intanto la borsetta che il consumatore paga migliaia di euro viene fabbricata in paesi poveri, come il Bangladesh, dove gli operai che la fanno lavorano 12 ore al giorno con una paga dai 2 ai 3 dollari all’ora e senza alcuna garanzia in termini di sicurezza.
I signori della moda, in proposito, hanno costruito un sistema che aggira qualsiasi legge e ogni principio dell’etica, come è stato dimostrato anche da alcune indagini giudiziarie. La Giorgio Armani Operation, la società al centro di forniture e subforniture di articoli di abbigliamento e accessori del gruppo, è finita in amministrazione giudiziaria per una serie di gravissimi reati. Scrivono i magistrati che hanno portato avanti le indagini, con la collaborazione delle Forze di Polizia e della Guardia di Finanza: <L’azienda ha utilizzato una prassi illecita così radicata e collaudata, da poter essere considerata parte integrante della politica d’impresa diretta all’aumento del business>.
In pratica uno dei motivi per i quali volano i profitti e il fatturato (arrivato a 2,5 miliardi di euro) del gruppo Armani, è lo sfruttamento del lavoro minorile e a cottimo (2 euro all’ora) dei prodotti che vengono realizzati in fabbricati del Bangladesh, del Pakistan e della Cina. Dall’inchiesta milanese è venuto fuori anche un calcolo: la borsetta di Armani che nei negozi del gruppo costa circa 2mila euro, viene pagata attraverso il sistema delle subforniture non più di 25 euro. Eppure la sostenibilità, almeno quella vera, come previsto dai 17 obiettivi dell’Agenda Onu 2030 per lo Sviluppo sostenibile prevede anche “un lavoro sicuro e retribuito in modo equo”.
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Giorgio Armani, che convenzionalmente e con toni servili, viene sempre presentato sui giornali e in televisione come “Re Giorgio”, non ha mai dato una spiegazione alle accuse ricevute in modo così esplicito dalla Procura di Milano. In compenso, continua a parlare, attraverso interviste e documentari, come l’oracolo di Delfi, giurando che la sostenibilità è “ormai al centro dell’azione di tutto il gruppo”. Come possiamo credergli? E come possono credergli i consumatori che acquistano i suoi prodotti?
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Foto Copertina di Ron Lach via Pexels
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