Il Paese che spreca i fichi d’India e li lascia marcire spiaccicati a terra

Si ripete in queste settimane in Sicilia il film delle arance che nessuno raccoglie. Uno spreco collettivo di ricchezza naturale, lavoro e benessere. Quei fichi in città si pagano sei euro al chilo. Perché bisogna abbandonarli?

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SPRECO FICHI D’INDIA – Quest’anno niente fichi. Né verdi, né neri, né tantomeno quelli gialli, d’India, che hanno iniziato a maturare proprio in questi giorni. Sono in un’isola della Sicilia, terra prediletta per i fichi, e da due settimane, in piena stagione per questo tipo di frutti, non riesco ad acquistarli. Non ci sono, o meglio: non si vendono. Mi guardo attorno per capire se c’è stata qualche malattia alle piante e le vedo invece profumate e cariche di fichi che nessuno tocca. Marciscono sui rami e quelli d’India, in particolare, finiscono spiaccicati sulla stradine dell’isola. Cerco di capire il mistero interrogando i due fruttivendoli che non riescono ad esaudire la mia richiesta per un piccola fornitura di fichi, prima che la loro stagione tramonti, e la risposta di entrambi è molto diretta: “Non li abbiamo perché nessuno li vuole raccogliere“.

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IL MEZZOGIORNO SPRECA LA RICCHEZZA – I fichi ripudiati, sprecati e non utilizzati, sono una metafora del nostro Mezzogiorno che volta le spalle ai suoi tesori, alla sua ricchezza più a portata di mano. Nell’isola dove devo rinunciare al mio frutto preferito, appena trent’anni fa, è un racconto scolpito nei libri e nel passaparola della storia orale, in questo periodo i fichi si raccoglievano con le carriole, tanto erano abbondanti e tanto erano richiesti sul mercato. Adesso la domanda è ancora alta, il prezzo è buono, anche sei euro al chilo, ma manca l’offerta, perché intanto sull’isola siciliana è arrivata la rendita del turismo con la sua filiera di ristoranti, locali, affittacamere e affitta barche. Tutte attività più redditizie e meno faticose della raccolta dei fichi: dunque tanto vale lasciarli marcire.

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Purtroppo i fichi non rappresentano un caso isolato, ma sono solo un capitolo di una lunga storia di tradimenti. Interi pezzi dell’agricoltura siciliana, e di quella meridionale in generale, non fanno più parte integrante dell’economia del territorio perché non si riesce a valorizzarli. Colpa delle infrastrutture che rendono proibitivi i costi di distribuzione, del mercato dove domina la legge del più forte e si impongono prezzi stracciati, della concorrenza sleale di altri paesi mediterranei. D’accordo. Ma colpa anche nostra, di una sottocultura dello sviluppo che non riesce più neanche a mettere a fuoco i veri punti di forza di un territorio. La arance siciliane, autentiche pepite d’oro in un’agricoltura da sistema Paese, finiscono continuamente come i fichi che quest’anno non sono riuscito a mangiare. Se ne trovano tracce in tutta l’isola, nelle strade, durante i mesi del raccolto mancato, e noi a Roma quelle arance che in Sicilia si buttano le paghiamo più di tre euro al chilo.

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LAVORO RIPUDIATOIl lavoro agricolo, proprio dove l’agricoltura è una ricchezza genetica, è ripudiato quasi con arroganza, condita con il solito piagnisteo del Sud abbandonato, mentre si continua a rincorrere il lavoro finto, quello dei sussidi regionali o statali, e il lavoro che non c’è, fabbriche e aziende che chiudono, laddove non reggono l’urto della crisi e non salvano la pelle, come le piccole e medie imprese del Nord, grazie al volume delle esportazioni. Ci dovrebbero pensare bene i siciliani prima di lasciare marcire i fichi per terra, molto bene. E dovrebbero interrogarsi se con quel gesto non stanno contribuendo al loro impoverimento.

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