Italia sprecona e ingiusta: la crisi la pagano solo i più poveri

Parlano i numeri del ministero dell'Economia: il 5 per cento della popolazione ha in tasca un quarto della ricchezza nazionale. Un cittadino lombardo guadagna in media 20mila euro, un calabrese quasi la metà. Così il Paese non può reggere, e si spacca

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ITALIA SPRECONA – La forbice si allarga, con i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. l’Italia sprecona e ingiusta, che scivola spaventosamente sul piano inclinato delle diseguaglianze ormai endemiche, ha un epicentro: il Mezzogiorno. I dati appena forniti dal ministero dell’Economia, che ha elaborato le dichiarazioni Irpef del 2012, scattano una fotografia che mette a fuoco e certifica la vera e principale emergenza del Paese, quella sulla quale al momento non esiste né una risposta politica né una responsabile presa d’atto da parte degli attori della rappresentanza sociale, sindacati e imprenditori. Sul piano nazionale, la concentrazione della ricchezza si spinge ai livelli più alti dei paesi occidentali: il 5 per cento dei contribuenti italiani detiene il 22,7 per cento del reddito complessivo (800 miliardi di euro). E già questo è un baratro, per la tenuta del Paese.

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DISEGUAGLIANZE – Poi, in fondo al pozzo nero delle diseguaglianze compaiono le regioni meridionali: il reddito medio complessivo è di 19.750 euro annui (parliamo di cifre lorde), che diventano 23.320 euro in Lombardia e 14.170 euro in Calabria. A grandi falcate, il cittadino medio calabrese si avvia a guadagnare la metà di quello lombardo, e nella classifica territoriale dei redditi Irpef agli ultimi posti ci sono solo e sempre le regioni del Sud. Se aggiungete il fatto che degli oltre 500mila posti di lavoro persi in Italia, tra il 2008, l’anno che segna l’inizio della Grande Crisi, e il 2013, il 60 per cento ha riguardato il Mezzogiorno, ormai desertificato dal punto di vista industriale, e in particolare i giovani e le donne, il quadro dell’emergenza è evidente.

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QUESTIONE NAZIONALE – Non è la questione meridionale, anche nelle sue diverse e aggiornate versioni, ma è la questione nazionale, cioè una crisi sociale prima che economica giunta a un punto vicino al non ritorno.
La polarizzazione tra ricchi e poveri che sta sfarinando l’Italia, dove in una regione come il Veneto i cittadini votano a favore della separazione e in un’altra come la Campania si fanno i conti con una nuova ondata di emigrazione di massa, riceve una tragica spinta propulsiva da una sorta di meccanismo a catena della crescente diseguaglianza, sulla quale ormai esiste una vera letteratura di studi e di analisi. Dal 2008 l’America ha esportato i frutti avvelenati del capitalismo finanziario entrato in corto circuito con la Grande Crisi e un modello di società, a noi finora ignoto, dove l’1 per cento della popolazione controlla quasi un quarto della ricchezza nazionale. A seguire, l’Europa, travolta dalle crisi dei debiti sovrani e inchiodata alle politiche di austerity di egemonia tedesca, ha allargato, senza barriere e senza contromisure, la forbice tra Nord e Sud del vecchio continente, laddove nel secondo girone, quello dei più deboli, ci siamo anche noi italiani.

DUALISMO NORD-SUD – E l’Italia, a sua volta, ha visto, sempre a mani alzate, sempre senza alcuna iniziativa concreta e reale, crescere il dualismo Nord-Sud, e anzi ha finito per consideralo quasi un’appendice irrilevante dei suoi guai. Un dossier da non mettere neanche sul tavolo. Cancellato. Così il Mezzogiorno, come i dati del ministero dell’Economia confermano, continua la sua corsa all’indietro.
Tra le cose peggiori che la politica ha fatto, senza riuscire a mettere alcun argine alla polarizzazione, c’è il famoso federalismo straccione e controproducente. Straccione perché ha dilatato la peggiore spesa pubblica (avete presente gli scandali sull’uso e gli sprechi dei fondi per i gruppi e i partiti a livello regionale?), controproducente perché ha favorito il Nord e ha dato una stangata, in termini di pressione fiscale più alta nel Sud. Negli ultimi vent’anni, a proposito di statistiche, le tasse “federali” sono cresciute cinque volte, in particolare nel Mezzogiorno, a fronte di imposizioni nazionali “solo” raddoppiate nello stesso periodo. Quanto a sindacati e imprenditori, cioè alle parti sociali, bisognerebbe chiedere conto a loro di quanto hanno fatto in questi anni per contrastare questa deriva. La nuova disuguaglianza di una società sempre più polarizzata si combatte innanzitutto interpretandola con nuovi strumenti e nuovi obiettivi, e non attraverso una sorda difesa dell’esistente. E la nuova diseguaglianza, concentrata al Sud, è la madre di tutte le battaglie per un Paese meno ingiusto e più capace di tornare a crescere.

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