Rifugiati climatici: saranno 200 milioni entro il 2050

Un esodo epocale da aree del mondo colpite dalla siccità e dalla carestia. Molti allarmi, ma poche azioni concrete

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Si chiamano rifugiati climatici. Ogni anno, secondo i dati dell’International Displacement Monitoring Center (IDMC) le persone che  si spostano, in media, per eventi correlati alla crisi climatica (compresi gli spostamenti per terremoti ed eruzioni) sono 22,7 milioni. E saranno dieci volte di più entro il 2050. L’esodo epocale dei rifugiati climatici è completamente fuori dal controllo delle organizzazioni internazionali. Ed è destinato, in modo inevitabile, a sovrapporsi alle migrazioni legate a fattori economici, politici, oppure alle guerre. Un mix spaventoso di fattori che porterà a nuovi disequilibri nel Pianeta, visto che già adesso i paesi più ricchi si mostrano poco disposti ad ospitare i rifugiati climatici e le nazioni disposte ad accoglierli sono sempre meno.

Cause delle migrazioni

L’ultimo allarme, in ordine di tempo, arriva da uno studio pubblicato sull’autorevole rivista PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences), organo ufficiale dell’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti. Nel corso degli ultimi seimila anni il genere umano ha vissuto in zone della Terra in cui le temperature medie sono comprese tra gli 11 e i 15 gradi e quindi in condizioni che permettono di sopravvivere, praticando anche agricoltura e allevamento. Nell’arco dei prossimi cinquant’anni però, a causa dei cambiamenti climatici, circa un terzo della popolazione mondiale si ritroverà a vivere in zone in cui la temperatura media si attesterà intorno ai 29 gradi, quella che attualmente si registra nello 0,8 per cento della superficie terrestre, prevalentemente zone calde e desertiche come il Sahara. Decisamente invivibili. Entro il 2070 quindi, queste aree molto aride caratterizzate da siccità estrema, in cui diventa difficile l’approvvigionamento di acqua e cibo, potrebbero ampliarsi di numero fino a ricoprire quasi un quinto della superficie terrestre. E questo, secondo lo studio, causerà “un cambiamento nella distribuzione geografica della popolazione”, ossia migrazioni di massa.

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“Persone o gruppi di persone che, a causa di improvvisi o graduali cambiamenti nell’ambiente che influenzano negativamente le loro condizioni di vita, sono obbligati o scelgono di lasciare le proprie case, temporaneamente o permanentemente, muovendosi all’interno del proprio paese o oltrepassando i confini nazionali”: così l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni definisce i “migranti ambientali”. Manca però una vera e propria definizione riconosciuta a livello internazionale: non esiste ancora un vero e proprio riconoscimento giuridico della figura del “rifugiato climatico”. Le persone costrette a migrare a causa del clima non sono quindi riconosciute e tutelate dal diritto internazionale e non possono vedersi riconosciuto lo status di “rifugiato”. La Convenzione di Ginevra del 1951 e il Protocollo relativo allo status di rifugiato del 1967 restringono la condizione di “rifugiato” a chi è costretto a fuggire perché perseguitato per la sua etnia, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche. La mancanza di un accordo internazionale sulla figura del “rifugiato climatico” equivale quindi all’assenza di una protezione legislativa internazionale.

Da tempo si discute della necessità di prevedere una convenzione specifica in grado di tutelare questa categoria di migranti. Anche l’Accordo di Parigi sul clima del 2015 ha chiesto che un comitato speciale istituito alla Conferenza sul Clima di Varsavia del 2013 realizzi delle linee guida in modo da arrivare ad una definizione, per legge, dei migranti ambientali. Ma non sono poche le difficoltà per la definizione di uno status di “rifugiato climatico”.  C’è anche un’altra questione da tenere in conto: non tutte le persone che migrano per questioni climatiche si spostano in un paese diverso da quello di origine mentre i rifugiati sono quelle persone che abbandonano lo Stato in cui risiedono, per cercare rifugio in uno Stato straniero.

Clima

Gli allarmi sulle migrazioni come conseguenza importante e drammatica del riscaldamento globale hanno ormai trent’anni: il problema era già stato messo nero su bianco nel 1990 dal primo rapporto dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), il Comitato Intergovernativo per i cambiamenti climatici dell’ONU. Secondo l’ultimo report della Banca Mondiale pubblicato nel mese di marzo del 2018 dal titolo “Groundswell: Preparing for Internal Climate Migration”, entro il 2050, saranno almeno 143 milioni le persone costrette a una migrazione forzata a causa del cambiamento climatico. Lo studio ha concentrato l’attenzione su tre aree: l’Africa subsahariana, l’Asia meridionale e l’America Latina e solamente sulle “migrazioni interne” che portano le persone ad abbandonare la propria casa e a spostarsi all’interno del proprio Paese. Tre zone del mondo che rappresentano il 55 per cento dell’intera popolazione dei Paesi in via di sviluppo e che, nei prossimi anni, saranno interessate più delle altre dagli spostamenti di massa delle popolazioni. Nello specifico, il flusso migratorio potrebbe interessare 86 milioni di persone in Africa, 40 milioni in Asia e 17 milioni in America Latina. Porterà le persone ad abbandonare le aree rurali e ad accentuare la pressione sui centri urbani. Un fenomeno che, nei prossimi decenni, interesserà soprattutto il Messico. In generale, si stima che, entro il 2050, potrebbero essere 200 milioni i migranti climatici.

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Siccità

Il fatto che non ci sia più un minuto di tempo da perdere, è stato evidenziato anche in uno degli ultimi rapporti sul clima del Comitato intergovernativo per i cambiamenti climatici dell’ONU in cui si ribadisce che, nei prossimi anni, sarà fondamentale evitare che la temperatura globale abbia un aumento superiore a 1,5 gradi. Notevoli i rischi a cui si andrebbe incontro in caso di un aumento anche di mezzo grado centigrado: ondate di caldo estremo, siccità, scioglimento dei ghiacciai e innalzamento del livello dei mari e degli oceani. Il calore in eccesso assorbito dai mari e dagli oceani, da un lato rallenta il riscaldamento globale, dall’altro però causa un innalzamento del livello delle acque e aumenta la potenza di uragani e tifoni con conseguenze devastanti per le città costiere e i loro abitanti. Sono tantissime le isole tra cui le Fiji che, entro la fine del secolo, potrebbero diventare inabitabili. E non solo: a rischio anche città come Bangkok in Thailandia e la nostra Venezia. Anche il Bangladesh, nei prossimi decenni, potrebbe trovarsi nella condizione di dover fronteggiare frequenti inondazioni e potrebbe andare incontro a difficoltà di approvvigionamento idrico. O Giacarta, la Capitale dell’Indonesia che, ogni anno, sprofonda di qualche centimetro ed entro il 2050 verrà sommersa dall’acqua. All’innalzamento del livello dei mari si associa una maggiore salinizzazione del suolo, una condizione in genere contrastata dalle piogge. Ovviamente, i periodi di siccità influiscono negativamente sulle possibilità di coltivazione dei terreni, con conseguenze negative sulla loro resa agricola.

L’aridità dei terreni associata ad eventi climatici estremi renderebbe difficoltosa l’agricoltura e la coltivazione dei cereali, principale fonte di sostentamento per miliardi di persone in diverse aree del mondo. Basta un solo grado in più sopra la media per vedere scendere del 10 per cento la rendita di un campo di cereali. E ottenere raccolti sempre più scarsi potrebbe avere ricadute molto pesanti sull’alimentazione di miliardi di persone. Ad esempio, in Etiopia, un paese dall’economia agricola e caratterizzato da una crescita demografica elevata, il calo della resa della terra potrebbe portare a ingenti migrazioni nei prossimi decenni.

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Africa

In Africa la situazione è sempre più allarmante: qui la temperatura media aumenta a un ritmo più veloce della media globale. Dai dati di uno studio pubblicato da Greenpeace Africa e dall’unità scientifica di Greenpeace (Weathering the Storm: Extreme Weather and Climate Change in Africa) è emerso che l’aumento medio della temperatura all’interno del continente supererà i 2 gradi centigradi fino a raggiungere un innalzamento compreso tra i 3 e i 6 gradi centigradi entro la fine del secolo. Questo comporterà l’intensificarsi di eventi metereologici estremi in grado di incidere pesantemente sulle comunità più povere, comunità costrette a subire gli effetti del climate change in quanto non possiedono le risorse per spostarsi altrove.

Guerre

Come già detto, la siccità causata dai cambiamenti climatici incide pesantemente sulla disponibilità e l’accesso al cibo. Negli anni passati, l’Etiopia è andata incontro ad una siccità gravissima che ha fatto crollare la produzione agricola, azzerandola del tutto in alcune aree, diminuendo l’accesso, per i pascoli, alle risorse idriche, uccidendo il bestiame e portando più di 8,5 milioni di persone a soffrire la fame. Come ribadisce l’ultima edizione del Rapporto Globale sulle Crisi Alimentari pubblicato dalla Rete Globale contro le Crisi Alimentari, l’alleanza internazionale di Agenzie ONU, governative e non governative, che lavorano per combattere le cause profonde della fame estrema, nel corso del 2019 sono state 135 milioni le persone esposte a insicurezza alimentare acuta in 55 Paesi. Oltre la metà di queste persone vive in Africa (73 milioni), 43 milioni in Medio Oriente e Asia e 18,5 milioni in America Latina e nei Caraibi. Si tratta del più alto livello di insicurezza alimentare e malnutrizione acuta documentato dalla Rete dal 2017, l’anno in cui è stata pubblicata la prima edizione del rapporto. Oltre ai conflitti che hanno interessato 77 milioni di persone e alle instabilità economiche che ne hanno coinvolte 24 milioni, sono stati gli eventi climatici estremi a causare lo stato di insicurezza alimentare acuta in 34 milioni di persone.

Siccità e guerre portano a carestie ingenti, come quella che negli anni passati, oltre all’Etiopia ha stretto nella sua morsa anche il Sud Sudan, l’area del bacino del lago Chad e del Corno d’Africa, lasciando 30 milioni di persone senza acqua e cibo. La mancanza d’acqua, quando diventa cronica, scatena rivolte e induce le persone a spostarsi, a migrare.

Come ha dichiarato Michelle Bachelet, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, il 40 per cento delle guerre civili sarebbe causato dal degrado delle condizioni ambientali. I cambiamenti climatici possono avere quindi conseguenze geopolitiche rilevanti. In Africa, nel Sahel, la perdita di terreni coltivabili – ha ribadito Bachelet – sta intensificando la competizione per il controllo di risorse alimentari già scarse. La crescente desertificazione spinge le greggi alla ricerca di raccolti, e questo causa ostilità tra contadini e pastori. Situazioni che finiscono per accrescere l’instabilità dei territori.

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