Luigi Dell’Aglio
Il futuro della nuova chimica si chiama biobased chemicals: prodotti chimici che escono da «bio-raffinerie», cioè biomateriali e biocombustibili provenienti da biomasse vegetali, residui agro-industriali e rifiuti organici. La nuova chimica agisce sfruttando processi naturali e alleandosi con le biotecnologie. E poiché la chimica «che non fa male» userà prodotti agricoli per fornire energia e composti chimici alla collettività, si attenuerà la dipendenza dal petrolio, le risorse del pianeta non saranno dilapidate e l’agricoltura riceverà impulso e attirerà nei campi le imprese e il lavoro. In questa direzione e con questi obiettivi si orientano le ricerche e il pensiero scientifico di Fabio Fava, ordinario di Biotecnologie industriali e ambientali all’Università di Bologna. Il quadro dei suoi interessi si completa se si considera che il professore ha una laurea (con 110 e lode) in Chimica e Tecnologie farmaceutiche. Ci sarebbe infatti da parlare anche di una sua inclinazione nascosta, quella per la medicina. Da giovane ammirava profondamente questa scienza «perché guariva i bambini». Poi l’amore per la medicina è confluito nella passione per la chimica, rendendola più intensa: «I farmaci sono composti chimici e stiamo riuscendo a ridurne la tossicità potenziale».
Professore, le bio-raffinerie saranno le fabbriche del futuro?
«Ci daranno un’ampia gamma di prodotti chimici, tutti bio-compatibili e bio-degradabili, che servono in molti settori: dall’industria chimica alla tessile, dall’energia alla cosmetica, dall’edilizia alla farmaceutica. Le materie prime che le bio-raffinerie trasformeranno sono bio-masse lignocellulosiche, sottoprodotti e scarti dell’industria agro-alimentare. Questa ‘rivoluzione’ presenta enormi vantaggi. I processi industriali non solo risparmieranno acqua ed energia ma produrranno poca anidride carbonica atmosferica (uno dei maggiori responsabili dei cambiamenti climatici) e anzi ne consumeranno una notevole quantità. Le bio-raffinerie, alternative al petrolio, inquinante e costoso, sono i pilastri della bio-based economy, la nuova realtà produttiva che si diffonde in molti Paesi europei e ora anche in Italia».
La «paura della chimica» basta a spiegare perché, negli ultimi 50 anni, si sono manifestate reazioni contrastanti nei suoi confronti?
«La chimica ha dato grande splendore scientifico-tecnologico ed economico al nostro Paese negli Anni ’60 e per oltre un ventennio, fino al 1985. Ma il settore è cresciuto in maniera tumultuosa; mancava una conoscenza puntuale dell’impatto che i processi chimici avevano sulla salute dell’uomo e sull’habitat; si usavano e venivano immessi nell’ambiente reagenti e prodotti della sintesi chimica industriale. Tutto ciò ha creato questioni ambientali che ancora oggi si riscontrano in maniera tangibile nelle tante aree contaminate del Paese. Negli ultimi 15 anni, il settore ha compiuto però straordinari passi avanti sul fronte della sicurezza e dell’ambiente. Grazie a processi produttivi più ‘puliti’ e sostenibili, con l’aiuto della chimica è stato possibile costruire veicoli e aerei più leggeri, rendere le nostre case più sicure, confortevoli e più efficienti dal punto di vista energetico, migliorare la qualità della vita».
Come si provvede a risanare le aree inquinate?
«Ho dedicato la mia vita di ricercatore anche alla decontaminazione dell’ambiente. È con l’impiego di microorganismi che avviene la bio-remediation , cioè la rimozione di inquinanti chimici da siti, suoli, sedimenti e acque inquinate. Oggi disponiamo di tecniche e processi biotecnologici per praticare monitoraggio e bonifica delle aree compromesse».
I cittadini sono informati di questi progressi della chimica?
«I più interessati sono i giovani. La mia esperienza di professore universitario, di relatore in convegni scientifici e di divulgatore, mi ha permesso di constatare che i giovani prestano vivissima attenzione a questi temi. Sono attratti dal fatto che i materiali che hanno all’interno delle loro abitazioni, i loro vestiti, la plastica dei loro cellulari e della loro moto o auto, come il combustibile per farle andare, potranno presto provenire da biomasse vegetali o da rifiuti organici e residui agro-industriali oggi smaltiti in discarica con ragguardevoli costi ambientali ed economici. Tuttavia bisogna andare incontro a questo interesse dei giovani; l’Anno internazionale della Chimica può essere una via privilegiata per raggiungere l’opinione pubblica, oggi distratta da un’informazione confusa e strillata. È indispensabile riuscire a comunicare in maniera efficace e precisa, per ripristinare nell’opinione pubblica il ruolo centrale della chimica, oggi il quarto settore manifatturiero nel nostro Paese».
Che cosa va spiegato ai giovani volenterosi che sarebbero pronti a incamminarsi sulle vie della chimica e a quelli che intendono almeno costruirsi un’opinione avveduta al riguardo?
«La chimica italiana è nel circuito di quella europea, che è leader a livello mondiale. Il fatturato della nostra industria chimica è di circa 50 miliardi di euro. Ma ai giovani l’informazione va portata illustrando tutta la storia della chimica italiana; quella gloriosa, culminata nel Nobel a Natta nel 1963, poi la fase del disagio ambientale e infine quella, attuale, della ripresa nella sicurezza e nella sostenibilità. Le emissioni mondiali di gas serra prodotte dall’industria chimica ammontano a 3,3 miliardi di tonnellate annue di anidride carbonica; quelle evitate oscillano tra 6,9 e 8,5 miliardi di tonnellate all’anno. Accusato di inquinare, e di infliggere alla Terra i cambiamenti climatici non previsti, il settore chimico in realtà contribuisce alla rimozione dei gas serra».
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