C’è qualcosa che non funziona nel meccanismo delle confische dei beni sequestrati ai clan della malavita organizzata. Il meccanismo è lento, burocratico, opaco, costoso. E pieno di sprechi. Risultato: soltanto in Campania 478 beni immobili confiscati alla camorra (una quota che vale un terzo dell’intero patrimonio sequestrato ai clan della malavita) sono finiti in una sorta di limbo. Nessuno può toccarli o utilizzarli con programmi utili dal punto di vista sociale, come prevede la legge, e tutto continua come se fossero ancora nelle mani dei boss. Il motivo? Si tratta di case, palazzi, uffici, finiti nel circolo vizioso delle ipoteche, e dunque bloccati. Oppure occupati dai familiari di qualche boss. È chiaro che in queste condizioni la conversione dei beni confiscati ai camorristi diventa pura e astratta teoria, come dimostrano anche i dati sulle aziende dei boss.
Delle 367 imprese sequestrate, soltanto il 2 per cento ancora funzionano. In questo caso, eliminato il boss e la sua rete di complicità l’azienda per restare sul mercato avrebbe bisogno di un accompagnamento attraverso politiche e incentivi che favoriscono l’atterraggio nel perimetro della legalità. Altrimenti si chiude, e con l’azienda si bruciano anche posti di lavoro. Perfino con le auto sequestrate si finisce nel girone infernale degli sprechi. Il meccanismo è il seguente: tra il sequestro dell’auto e la confisca passano circa sette anni. Durante questo periodo le auto marciscono in autorimesse che poi presentano il conto del parcheggio. E quasi sempre il conto supera il valore delle automobili sequestrate. Di fronte allo sfarinarsi delle confische, a tutti i livelli, tocca al ministero degli Interni prendere la regia e verificare quali cambiamenti vanno introdotti nella legge e nell’amministrazione. Altrimenti è meglio lasciare i beni nelle mani dei boss, allo Stato costa meno e non si alimentano false illusioni.
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