La Marina degli Stati Uniti e l’indipendente Algalita Marine Research Foundation stimano che la quantità di rifiuti in plastica non biodegradabile accumulata in questo punto del Pacifico oscilli tra i 3 milioni di tonnellate e i 100 milioni. Per una profondità di oltre 10 metri. Detriti che hanno formato un’isola in larga parte composta da rifiuti di materie plastiche solo in parte fotodegradabili e che nel loro lento processo si deteriorano sino a diventare polimeri, provocando inquinamento da PCB (Policlorobifenili). Sostanze che entrano così facilmente nella catena alimentare della fauna ittica.
Non parliamo solo del rischio da ingestione di materiali solidi anche di notevoli dimensioni da parte di particolari specie, ma del fatto che ogni forma di vita marina possa essere interessata dal fenomeno in atto. Un fenomeno che sembra essersi venuto a creare intorno agli anni cinquanta per l’azione della corrente oceanica subtropicale del Nord Pacifico. Un vero e proprio vortice in grado di attrarre verso il suo centro una quantità impressionante di rifiuti galleggianti, aggregati tra di loro dalla persistente azione del vortice stesso.
Il Pacific Trash Vortex, così come ribattezzato a seguito della sola ipotesi della sua esistenza, nata da una ricerca statunitense del NOAA, venne concretamente esaminato sul campo. Ad oggi sappiamo che sotto la superficie dell’isola a 10 metri di profondità i polimeri e i filamenti plastici stanno via via disperdendosi in mare. Polimeri ridotti a particelle somiglianti al plancton. Solo le perdite di carico hanno rilasciato in mare nel 1990, 80 mila tra scarpe e stivali Nike; nel 92 migliaia di giocattoli; nel 94 attrezzature da Hockey.
Questo fenomeno occasionale ma continuo legato ai cambi di corrente oceanici significa un numero notevole di perdite di carico che si aggiunge all’insieme dei rifiuti conferito in mare e di provenienza differente. Altre isole di rifiuti sono state recentemente scoperte in corrispondenza del Mar dei Sargassi. Altre zone probabilmente interessate da un fenomeno simile ed evidenziate di recente sembrano trovarsi ad ovest della costa cilena in Atlantico, tra Argentina e Sud Africa.
Dalle ultime notizie che arrivano sulla qualità dei rifiuti sembra che l’80% sia composto da sacchetti in plastica. In questo senso la nostra legislazione ha di recente ben operato mettendo al bando le buste non biodegradabili. L’Europa e molte ONG chiedono che la legislazione sia promossa fuori dai nostri confini, per evitare di alimentare un accumulo così rischioso di un rifiuto tanto comune. Nel frattempo c’è già qualche impresa americana che ipotizza lo sviluppo di tecnologie in grado di trattare direttamente in mare i rifiuti, recuperando energia ed evitando la dispersione in mare delle plastiche più inquinanti.
Ecoseven
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