Per raggiungere le loro stradine devono
attraversare arterie a sovranità automobilistica.
Ed è sempre pericoloso. La
tragedia è in agguato. Ma una tragedia
record come quella accaduta ieri a Lamezia
Terme, dove in un colpo sono
morti sette ciclisti della domenica, non
sembra rispondere alla logica della realtà.
Il computo delle vittime è da corrispondenza
di guerra, da bilancio di attentato
terroristico, da videogioco.
Il destino che ha centrato in pieno i
sette ciclisti aveva le sembianze di una
Mercedes lanciata sulla SS 18 delle Calabrie.
Guidava un marocchino, sotto l’effetto
di droga, con la patente sequestrata.
Diciamo che il destino gli ha dato un
grande aiuto. Loro, i ciclisti morti, erano
soci del gruppo amatoriale Atlas di
Lamezia. Tre, nella vita feriale, erano avvocati.
Erano usciti ieri perché era spuntato
finalmente il sole dopo giorni di
pioggia. Che giro avevano fatto? Lì, di
solito, ci si inerpica fino al monumento
funebre a Michele Bianchi, quadrumviro
mussoliniano, che guarda dall’alto lo
scoglio di Corica. Oppure si provano allunghi
sul «muro» del Cocuzzo, il Gran
premio della Montagna dei Contador locali.
Prima, però, una sosta per una messa
a punto, quasi una cerimonia di punzonatura,
ad Amantea (la città dal nome
più bello), dove c’è la bottega di Cima
(mai insegna più consona per aspiranti
grimpeur), ditta familiare, padre moglie
e figli esperti di pedali e forcelle, ritrovo
dei cicloamatori della Costiera.
«Una bella bici che va, silenziosa velocità,
sopra le distanze, le lontananze».
Nessuno ha saputo cantare meglio la
passione per la bici di Paolo Conte. E di
quella passione è stato testimonial persino
un primo ministro, Romano Prodi.
Eppure, malgrado così illustri sponsorizzazioni,
questo non è un Paese per ciclisti
se, una domenica mattina, una
Mercedes fa strike e li abbatte come birilli
al bowling.
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