Ben il 24% delle imprese italiane punta sulla sostenibilità ambientale, seppur in uno scenario economico di crisi, e il 38% delle assunzioni fatte nel 2011 riguarda professionisti della green economy. Ma c’è di più, perché l’economia verde in Italia interessa un’azienda su 4, cioè 370mila imprese che, dal 2008 a oggi, hanno investito in prodotti e tecnologie a basso impatto ambientale. Addirittura, l’Italia risulta al primo posto in Europa, con il 55% delle risorse totali impegnate nella green economy.
Sono questi i dati principali del Rapporto GreenItaly 2011, che Symbola e Unioncamere hanno presentato ieri a Milano, alla presenza, tra gli altri, di Maurizio Lupi, vicepresidente della Camera dei Deputati, Stefano Boeri, assessore alla Cultura del Comune di Milano, Alberto Meomartini, presidente di Assolombarda e Ermete Realacci, responsabile Green Economy del Pd e presidente di Symbola. Presente anche Giuseppe Sala, amministratore delegato dell’Expo di Milano, a sottolineare come l’evento del 2015 ambisce a contraddistinguersi per pratiche di sostenibilità.
Secondo i relatori, questa crisi si può vincere continuando a puntare su innovazione, qualità e sostenibilità. “Tre valori che, coniugati tra loro – ha spiegato Claudio Gagliardi, segretario generale di Unioncamere – consentono alle nostre imprese di intercettare le preferenze dei consumatori del mondo, di rendere i propri prodotti unici e non riproducibili, di fare efficienza puntando sulla creatività delle risorse umane e sull’uso responsabile delle risorse naturali”.
L’Italia, pur con mille lentezze croniche, ha forse saputo interpretare in maniera originale la green economy: nel nostro paese, infatti, la vera forza delle imprese “green” non è solo nel prodotto finito, ma nella capacità delle singole aziende di integrare territorio e produzione, comprendendo tutte le fasi del processo produttivo, dalle risorse primarie alle emissioni finali. In pratica, da noi si assisterebbe soprattutto – secondo il rapporto – alla riconversione in chiave ecosostenibile di comparti tradizionali dell’industria, più che allo sviluppo di settori innovativi legati alle rinnovabili o ad altri settori chiave. A testimoniarlo ci sono i numeri: oltre un terzo delle imprese che investono in tecnologie per la riduzione dell’impatto ambientale (il 34,8%) opera all’estero – quota quasi doppia rispetto a quella rilevata per le aziende che non puntano sulla sostenibilità ambientale (meno di 2 su 5, pari al 18,6%). Tanto che, entro la fine del 2011, queste imprese prevedono nuove assunzioni, addirittura al Sud. Ma c’è un altro dato che lascia positivamente sorpresi: la classifica regionale per incidenza delle imprese “green” sul totale, infatti, vede in testa il Trentino Alto Adige, seguito da Valle d’Aosta, Molise, Abruzzo e Basilicata. Segno che dalla sostenibilità può anche arrivare un rilancio per l’economia del Mezzogiorno.
La crisi, del resto, “ha posto le imprese davanti a un ripensamento radicale del proprio modello di sviluppo”, come ha evidenziato Maurizio Lupi. Dati alla mano, sono state soprattutto le medie imprese (quelle dai 20 ai 499 dipendenti) a investire su prodotti e tecnologie a maggior risparmio energetico e a minor impatto ambientale. La parte da leone la fa il settore manifatturiero, dove la quota di imprese che realizzano investimenti in sostenibilità sfiora il 28%. Per quanto riguarda l’agricoltura, invece, basti ricordare che l’Italia è il paese al primo posto in Europa per numero di aziende che hanno scelto il metodo di produzione biologico ed è anche il maggior esportatore mondiale di prodotti biologici. Esempi positivi emergono tuttavia in tutti i maggiori settori produttivi: la concia, la carta, la ceramica, il legno-arredo, la nautica, l’edilizia, il tessile.
Una crescita dunque che si collega alle eccellenze del Made in Italy e che offre prospettive concrete, come quelle legate all’Expo, “momento di traguardo – sintetizza Boeri – di una conversione ecologica di Milano e dell’intero paese”. Proprio durante il periodo dell’Expo, verranno realizzati progetti di sostenibilità ambientale ed energetica per promuovere quei primati imprenditoriali italiani che “nonostante il periodo di crisi non sono in declino, soprattutto in Lombardia”.
La green economy si conferma dunque un fattore propulsivo della competitività: in tempi di cassa integrazione e di licenziamenti, le 116mila imprese che invesono in tecnologie green prevedono, entro la fine dell’anno, 344mila nuove assunzioni, per lo più a tempo indeterminato, nei settori della bioedilizia e delle costruzioni. Ciò vuol anche dire che bisogna ripensare la formazione professionale perché, nonostante l’offerta appaia ricca (soprattutto per il numero di strutture e atenei che propongono corsi e master in green economy), in realtà si evidenzia un disallineamento tra i bisogni professionali delle imprese e le competenze disponibili. Un gap che lascia intravedere il rischio di guadagni facili e pochi risultati.
“La green economy è una possibilità per l’Italia di competere nel mondo e una chiave per le politiche, non solo quelle legate agli incentivi, ma anche quelle a costo zero, come la creazione di reti d’impresa”, precisa Realacci che aggiunge: “Non credo alla tecnocrazia della crescita, se non c’è un anima dietro e un’idea sul paese che vogliamo”. Una constatazione che ben si lega all’evidenza di come, nelle imprese italiane, l’orientamento green passi attraverso la valorizzazione dell’individuo. “La green economy – puntualizza Marco Frey, docente di economia ala Scuola Superiore S. Anna di Pisa – è un campo in cui c’è bisogno di sistematicità: il rischio, altrimenti, è che rimanga soltanto uno slogan, mentre è necessario che i business models si trasformino in un’ottica di impresa”. Un concetto che anche Legambiente condivide, confermando come, almeno nello scenario della green economy, voci differenti e spesso opposte convergano tutte all’unisono. “La green economy – precisa Andrea Poggio, vicedirettore nazionale di Legambiente – non è un settore di nicchia, c’è la capacità del sistema Italia di rispondere positivamente anche a fronte di una carenza di incentivi. Servono però politiche industriali per valorizzare le eccellenze, fare rete e riuscire a competere nel mondo”. Un campo nel quale l’Italia ha le potenzialità per farcela, anche in un momento critico come quello attuale.
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