Lotta al racket e all’usura: quando la battaglia alla criminalità diventa il regno di sprechi e truffe

Infiniti rubinetti di denaro pubblico finanziano l’attività dei paladini dell’antiracket. Sarebbe il caso di avere un quadro più chiaro e più decifrabile nell’interesse di chi questa lotta la fa sul serio, da eroe, rischiando ogni giorno sulla propria pelle.

lotta racket e usura quando la lotta alla criminalita diventa un regno di sprechi e truffe

Servono un’enciclopedia e una bussola per navigare nel mare magnum dell’antiracket (e antiusura). Un’enciclopedia per la quantità di associazioni, fondazioni, cooperative ed enti che a vario titolo combattono una battaglia quotidiana, in alcuni casi molto rischiosa, contro il “pizzo” e lo strozzinaggio, due settori dell’economia criminale e della sua forza sul territorio. La bussola, invece, serve per orientarsi nell’acqua che sgorga dagli infiniti rubinetti di denaro pubblico che finanziano l’attività dei paladini dell’antiracket: dai fondi statali a quelli europei, dai ministeri alle grandi aziende controllate dallo Stato, dai bilanci regionali alle varie elargizioni da parte di comuni, province e perfino comunità montane. Tutti in campo, tutti con il portafoglio aperto.

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Diciamolo subito a scanso di equivoci: la rete dal basso per contrastare racket e usura è fondamentale nello scontro tra lo Stato, con i cittadini, contro la malavita, con i suoi capi, affiliati e complici. «Povero il Paese che ha bisogno di eroi» diceva Brecht. Ma non c’è dubbio che senza alcuni eroi dell’universo antiracket (e antiusura), nel nostro Paese la presenza capillare della criminalità sarebbe ancora più devastante. Peccato che agli eroi veri si sommano, magari uno a fianco all’altro, quelli falsi, ed altri che non si capisce bene se sono veri o falsi. Da qui un secondo livello di verità, sul quale non si può fare finta di nulla: una serie molto fitta di scandali e di inchieste, alcune perfino tragicomiche, dimostrano che questo territorio dell’antiracket (e antiusura) è diventato, anche per la sua crescita esponenziale, anche un regno di sprechi, conti opachi, truffe e malaffare.

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Silvana Tucito, eroina napoletana dell’antiracket passata dalla copertina di Time a un passo dalla galera con accuse molto gravi, avrà il tempo e il modo per difendersi. E speriamo che ci sia rapida chiarezza. Ma certo la sua parabola, il suo precipizio, quello descritto dai magistrati che l’accusano, non è un caso isolato. Anzi. Rosy Canale, un’altra icona del Sud che si ribella alle leggi della malavita, ha creato il “Movimento delle donne di San Luca” ed è diventata una star del circuito mediatico nazionale. Tra un giro in tv e qualche paginata di interviste, la Canale è riuscita raccogliere vagoni di denaro da aziende pubbliche, ministeri e la solita generosa regione Calabria. Poi si è scoperto che parte di questi soldi non servivano a combattere, con passione femminile, né il racket né l’usura, quanto a pagare i conti delle debolezze femminili della Casale, dalla borsa di Luis Vuitton alla minicar per la figlia.

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Casi simili si sono visti praticamente in tutte le regioni inquinate dalla malavita, con alcune variabili. A Caltanissetta, per esempio, il prefetto ha sciolto l’associazione antiracket quando si è accorto che 100mila euro in contanti erano scomparsi dalla cassa. A Capo Rizzuto, in Calabria, l’ex sindaco, Carolina Girasole, un’altra eroina antiracket e antiusura, è finita agli arresti domiciliari per appalti truccati a favore del clan della famiglia Arena. Ed a Casapesenna, in provincia di Caserta, cioè in Campania, un gruppo di imprenditori sono accusati di avere messo in piedi un’attività antiracket per presentarsi come paladini della legalità, e dunque eroi immacolati, alla riffa degli appalti pubblici truccati a favore della rete del clan Zagaria.

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Tornando al caso della Tucito, la donna è l’ormai ex presidente regionale del Fai, la federazione che raccoglie 67 associazioni antiracket e antiusura (le ultime due, a Niscemi e Ragusa, sono nate nello scorso mese di febbraio), dove il presidente onorario Tano Grasso, un autentico e coraggioso protagonista della lotta contro la criminalità, si trova a fare i conti con alcune situazioni imbarazzanti. Per esempio, un’indagine della Corte dei Conti, che potrebbe avere risvolti penali, sulle modalità giudicate arbitrarie con le quale sono stati distribuiti 13 milioni e 433mila euro stanziati dall’Unione europea per i progetti antiracket e antiusura. Di questi soldi 7 milioni sono andati al FaI, 1 milione e 500mila euro al “Comitato Addio Pizzo”  e 1 milione e 800mila euro all’Associazione antiracket di Salerno. Un gruppo molto ristretto di associazioni, alle quali si sono aggiunte, come in un tavolo di fortunati vincitori di una partita di poker, la Confindustria di Caserta e di Caltanissetta che hanno ricevuto oltre 3milioni di euro dei fondi europei.

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Domanda: è giusto finanziare con fondi pubblici, e in queste proporzioni, un’associazione privata, di categoria, attraverso il rubinetto della lotta antiracket e antiusura, due fenomeni che certamente colpiscono gli imprenditori? A dire no, non è giusto, ci hanno pensato tutte quelle associazioni, dalla “Lega per la legalità” a “Sos Impresa”, anche loro impegnate sul fronte antiracket e antiusura, ma pronte a denunciare nell’assegnazione dei soldi pubblici «una mercificazione dell’attività contro il pizzo» e un regalo alla «casta dell’antiracket». Che qualcosa non funzioni in questo universo, dove girano tanti soldi e tanto professionismo e poca trasparenza, lo si ricava anche dalla corsa piuttosto bizzarra a un certo tipo di associazionismo e dalla parallela e burocratica posizione del ministero degli Interni che forse non è del tutto aggiornato sulla crescita esplosiva del settore. A Catania, per esempio, le reti di associazioni e cooperative antiracket e antiusura si sono moltiplicate in una babele di sigle (torniamo alla necessità dell’enciclopedia): prima l’Asaec, dopo l’Assae,  e ancora l’Asara e l’Afa. Servono tutte queste federazioni?

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Quanto ai soldi, il Fondo di solidarietà antiracket (e antiusura) compare in bella evidenza sul sito del ministero dell’Interno, dove si afferma il sacrosanto principio in base al quale, testualmente, «lo Stato sostiene e incoraggia l’attività delle associazioni antiracket». Giusto. Ma allora perché, con trasparenza e con altrettanta chiarezza, non dire a chi vanno i soldi e come sono distribuiti? Le ripartizioni, da parte del ministero degli Interni e di quello dell’Economia, che compaiono sul sito, sono parziali e si riferiscono a dei decreti del 2006 e del 2007. Sono passati alcuni anni, la rete si è allargata come la torta dei soldi disponibili e come le inchieste giudiziarie e le indagini delle forze dell’ordine intitolate non a caso «inganno», e sarebbe il caso di avere un quadro più chiaro e più decifrabile da parte di tutti, a partire dai cittadini. E questo innanzitutto nell’interesse di chi la lotta contro il racket e contro l’usura la fa sul serio, da eroe, rischiando ogni giorno sulla propria pelle.

da Il Mattino 

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