Sono giorni di riunioni tecniche a Bruxelles, ambasciatori, esperti e sherpa: tutti impegnati a limare i conti del bilancio di previsione dell’Unione europea per i prossimi 7 anni, dal 2014 al 2020. Parliamo di un impegno di spesa di 1.033 miliardi di euro, spalmati nell’arco dei sette anni, e parliamo di una proposta che già vede contrari alcuni paesi rigoristi come la Germania, l’Olanda, la Svezia e la Gran Bretagna.
In tempi di tagli della spesa pubblica, non si capirebbe perché l’Unione europea dovrebbe restare esclusa da qualche colpo di forbice, specie se giustamente indirizzato alla riduzione degli sprechi e non all’eliminazione, come pure è stata minacciata, di preziosi progetti di integrazione come il piano Erasmus per gli studenti universitari.
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Nelle pieghe del bilancio dell’Unione gli sprechi sono molti. La doppia sede istituzionale, Bruxelles e Strasburgo, i costi dei dipendenti con relativi benefit, le spese di rappresentanza a volte molto difficili da giustificare. Nessuno, per esempio, è in grado di dare una risposta efficace ai reali motivi che portano l’Unione ad avere 33 dipendenti in organico, con una spesa di 2 milioni di euro l’anno, distaccati nel Pacifico, esattamente nelle isole Figi. Come i 44 fortunati funzionari europei piazzati alle Barbados, o i loro colleghi che lavorano nelle isole di Anguilla, Antigua e Santa Lucia. Vedremo se l’eurocrazia questa volta piegherà la testa di fronte alla richiesta di tagli e spending review a livello europeo.
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Per il momento resta la contraddizione più difficile da ingoiare: l’Unione costa troppo, e conta troppo poco. Due errori di fondo nella sua configurazione che la rendono più vulnerabile e sempre meno amata dai cittadini.
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