Mondiali 2014, migliaia di giovani brasiliani contro l’organizzazione

Costi stratosferici e un'organizzazione del campionato di calcio che penalizza le fasce più deboli della popolazione. La "rivolta dell'aceto" in Brasile coinvolge migliaia di giovani

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E’ già battezzata come “la rivolta dell’aceto”. Migliaia di giovani, in tutte le città del Brasile, scendono nelle strade per protestare contro l’organizzazione dei campionati del mondo di calcio 2014, e usano proprio l’aceto per difendersi dai micidiali lanci di gas lacrimogeni da parte della polizia. La palla è rotonda, e questa volta viaggia sull’onda di una sommossa popolare per scagliarsi, come un boomerang, contro il governo di un Paese dove la piazza, per fare sentire la sua voce, sta rinnegando la principale passione collettiva, il calcio appunto.

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Il movimento, ispirato dall’interrogativo Copa pra quem (Il mondiale per chi)?, è spinto da una doppia indignazione. Da un lato ci sono i costi stratosferici, raddoppiati rispetto alle previsioni iniziali, per un evento sportivo che sarà seguito in tutto il mondo; dall’altro versante appaiono, come i fantasmi, le ombre per gli effetti a catena di un’organizzazione che ha colpito al cuore le fasce più deboli della popolazione. Migliaia di senzatetto sono stati sfrattati dai loro alloggi di fortuna, intere comunità sono state trasferite da un quartiere all’altro della città, e intanto sono aumentati i prezzi delle case e perfino i biglietti per i trasporti pubblici mentre un’inflazione a due cifre, fino al 13 per cento, si è rovesciata sui generi alimentari di prima necessità.

Il Mondiale di calcio, per i brasiliani, sta diventando un incubo sociale. Tanto che perfino l’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani ha acceso un riflettore per denunciare quanto sta avvenendo in tutto il paese. «Speravamo che il Brasile utilizzasse i mondiali come un’opportunità per mostrare i suoi progressi e per favorire il diritto alla casa dei suoi cittadini, i fatti invece ci dicono il contrario» protesta Raquel Rolnik, la voce dell’Onu in questa incerta partita. E avverte: «Il mondo seguirà gli incontri di calcio in televisione, ma la comunità internazionale punterà lo sguardo sui diritti delle persone».

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Eppure il Mondiale di calcio, con l’accoppiata delle Olimpiadi del 2016, doveva essere l’occasione per il Brasile di entrare a vele spiegate nel club dei paesi più solidi dell’economia globale, e non a caso la presidente Dilma Rouseff aveva piazzato le elezioni a cavallo tra i due eventi per incassare il suo dividendo politico. Lo sport, mai come in questo caso, doveva rispondere a una grande operazione di propaganda interna e internazionale, attirando preziosi investimenti in una fase di recessione mondiale.

Un volano per la crescita, anche qui molto rallentata, che per il momento si è tradotto soltanto in enormi spese per gli impianti sportivi. Bisognava fare strade, case popolari, infrastrutture, e invece tre miliardi di euro sono volati via per ammodernare gli stadi. Certo, il Maracanà di Rio de Janero e il Mané Garrincha a Brasilia, oggi sono due impianti all’avanguardia per l’uso delle tecnologie e per le tecniche di costruzione. I rifornimenti energetici fotovoltaici, l’illuminazione con le lampade led, le strutture di copertura in biossido di titano: tanti riconoscimenti e premi per la qualità delle opere e per il loro valore ambientale, ma di tutto questo nelle tasche dei brasiliani non entra nulla.

Né va meglio per le aziende locali, che sono state scavalcate dalla concorrenza delle grandi multinazionali: la sola Siemens conta di fatturare in Brasile, tra Mondiali e Olimpiadi, qualcosa come un miliardo di euro. Un vecchio e smaliziato comunista, come il ministro dello Sport, Aldo Rebelo commenta: «I mondiali sono come un secchio pieno di latte. Si può fare il formaggio, oppure ci si inciampa e si rovescia tutto per terra». E con un calcio di pallone rischiano di finire in tribuna i sogni di gloria del Brasile.

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