L’ultima vittima è una donna di 42 anni, Patrizia Pepè. Era in gita in cima alle cascate di Acquafraggia a Piuro in Valchiavenna, con il suo compagno Antonio Ciulla, quando ha deciso di farsi un “selfie estremo”, una foto da smartphone ad altissimo rischio. Purtroppo è precipitata per 60 metri ed è morta sul colpo, e anche il suo compagno ha rischiato la vita nel tentativo di salvarla.
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MORIRE PER UN SELFIE
Ogni anno in Italia 50 persone muoiono nel tentativo di fare “selfie estremi” e l’89 per cento di queste vittime sono giovani tra i 10 e i 29 anni. Vite sprecate. Un film dell’orrore senza tregua, con continui aggiornamenti. Come nel caso di una donna che a Crema si è data fuoco all’interno di un parcheggio: una sola persona ha provato, inutilmente, a salvarla dalle fiamme. Gli altri presenti erano scesi dalle macchine, ma solo per filmare.
È come se lo smartphone fosse diventato la bandiera della nostra indifferenza, di una tecnologia che ha rotto qualsiasi linea di confine tra la curiosità e il più bieco cinismo. C’è qualcosa, in questo atteggiamento suicida, che non sappiamo più governare, come ci ricordano i morti da selfie. Una categoria di vittime e carnefici che sta diventando una statistica per gli studi sulla psicologia individuale e di massa. Una psiche ormai prigioniera, a mani in alto in segno di resa, della tecnologia.
VITE SPRECATE PER COLPA DI UN SELFIE
Francesco aveva solo 13 anni. È morto in un lampo di follia, una vita sprecata, nel modo più assurdo nell’era della schiavitù da protesi elettroniche. Il padre, Fabio Provenzano (anche per lui la vita, dopo questa tragedia, si è spenta, e possiamo solo augurargli che si riaccenda…), guidava la sua Bmw 320, di notte, sull’autostrada siciliana A29, tra Mazara del Vallo e Palermo. Improvvisamente decide di fare un video e di postarlo: questione di attimi, lo schianto fatale, e in venti secondi la vita di Francesco vola via, e anche il suo fratellino minore, Antonio, 9 anni, resta gravemente ferito. C’è una strage silenziosa da selfie. Video e diretta Facebook, una strage continua, una messa in fila di vite sprecate, che davvero è difficile da decifrare con qualsiasi parametro riconducibile al buonsenso della persona umana. Una follia…
PER APPROFONDIRE: Incidenti e rischi dei selfie, c’è una follia in questa deriva. Possiamo fermarla?
QUANDO I SELFIE DIVENTANO TROPPO PERICOLOSI?
Una follia che, come rileva il Rapporto Italia 2019 di Eurispes, in sei anni, nel periodo compreso tra il mese di ottobre 2011 e quello di novembre 2017, ha contato ben 259 vittime, giovanissimi che hanno perso la vita nel tentativo di scattarsi un selfie “pericoloso” per poi condividerlo sui social.
Ovviamente la macchina della follia dei selfie ha alle spalle un’industria, fatta di fatturati e utili. I selfie scattati ogni giorno sono circa 100 milioni. L’82 per cento dei giovani americani, tra i 18 e i 34 anni, sono soliti farli. E l’aumento della spesa legato a questa attività è pari a circa il 5 per cento.
Solo qualche giorno fa la tragica morte di Luigi e Fausto a causa di un incidente stradale sulla A1 nel tratto tra Modena Nord e Modena Sud. Hanno perso il controllo dell’auto, schiantandosi contro il guardrail. Poco prima dello schianto mortale avevano registrato un video in diretta su Facebook in cui si vantavano della loro folle corsa in autostrada a 220 all’ora.
La morte di Luigi e Fausto però, è soltanto l’ultimo di una serie di incidenti mortali dovuti alla mania di postare sui social le proprie bravate, che si tratti di un selfie in bilico sul tetto di un grattacielo o un video mentre si guida in macchina a tutta velocità.
Dal Rapporto, che rilancia uno studio dell’India Institute of Medical Sciences di Nuova Delhi, emerge inoltre che la fascia d’età maggiormente coinvolta è quella di età compresa tra i 20 e i 29 anni (e per la quale si contano 106 vittime), a cui segue quella relativa alla fascia 10-19 anni dove le vittime sono ben 76. Altre 20 vittime si contano nella fascia tra i 30 e i 39 anni, 2 tra i 50 e i 59 anni e 3 tra i 60 e i 69 anni. In totale, delle 259 persone rimaste vittime dei selfie estremi, 153 sono uomini, 106 donne.
La maggior parte degli incidenti sono avvenuti a causa di cadute dall’alto di palazzi ma anche montagne e scogliere e dall’investimento da parte di treni: in molti casi, nel tentativo di farsi un selfie sui binari.
CHE COS’È UN KILFIE?
Questi tipo di autoscatto li chiamano “KILFIE“, ossia i selfie killer. Una follia da comprendere. Una folla impossibile da spiegare a un padre che ha perso un figlio per la febbre dei selfie. Anche Andrea Barone, 15 anni, era salito con gli amici sul tetto di un centro commerciale, al confine tra Milano e Sesto San Giovanni, si era fatto una foto sfidando qualsiasi rischio ed è precipitato all’interno dell’edificio, da un punto dove non esisteva alcuna forma di protezione.
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PERCHÈ SI FANNO I SELFIE PERICOLOSI?
Una vita sprecata come quella del quindicenne morto a Terni, mentre scattava la foto all’amico in scooter che gli doveva passare vicino, del suo coetaneo travolto da un’onda mentre si auto-fotografava a picco sul mare, del ventenne di Val di Susa precipitato mentre cerca di saltare una scalata. Non sono più singoli episodi, singole tragedie e fatalità. L’Osservatorio nazionale dell’adolescenza ha diffuso dei dati ricavati da un questionario compilato da ben 8mila adolescenti in tutta Italia. Leggete bene che cosa viene fuori: l’8 per cento di loro è stato sfidato a fare un selfie estremo e un adolescente su dieci lo ha fatto mettendo a rischio la propria incolumità, una percentuale che sale al 12 per cento nella fascia di età tra gli 11 e i 13 anni.
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QUANDO I SELFIE SONO UNA MALATTIA
Il selfie estremo è diventato il sintomo più evidente di ciò che sta avvenendo: la tecnologia sfrenata, senza conoscenza e senza difese, distrugge le nostre vite, in quanto ne elimina il valore, il senso. Come il lavoro, che nella gig economy gonfiata dal web, perde senso e diventa lavoretto. In queste condizioni i nostri figli, i nostri nipoti, come scrive Massimo Recalcati, sono letteralmente “senza rete”. Vittime incoscienti, martiri, di un uomo che ha perso il braccio di ferro con la macchina, e si è inchinato allo strapotere delle protesi elettriche ed elettroniche.
Alessandro non era un ragazzo strano. Amava davvero la vita, come oggi ricorda il padre distrutto. Non era prigioniero dell’alcol, della droga, della solitudine, dei mali più diffusi della contemporaneità. Era solo attratto da questa bestiale sottocultura del narcisismo individuale alimentato dagli smartphone, da un esibizionismo che deve sempre superare un limite, anche quello del più banale buonsenso, per potersi affermare. Era intrappolato da una modernità che non sappiamo più declinare, che ci semplicemente sfuggita di mano.
Dobbiamo rassegnarci a tutto ciò? Partita chiusa? Assolutamente no. Le risposte, con le relative contromisure, sono a portata di mano, tutti possiamo fare qualcosa, ma per reagire bisogna muoversi, essere attivi, e non cedere all’ineluttabile legge del progresso. Le risposte devono partire da famiglie e scuola, e ispirarsi alla declinazione di due verbi: vigilare ed educare. In fondo, nessun genitore, tranne i più scellerati, ignora le frequentazioni di un figlio adolescente, il suo rendimento a scuola, se e quando fa uso di droghe oppure quante sigarette fuma. E allora perché la vigilanza non deve allargarsi anche all’ambito dell’uso sfrenato della tecnologia? Siamo noi, nelle nostre case che possiamo tenere gli occhi aperti sui ragazzi e sulla loro deriva a caccia del selfie estremo, avendo ormai la misura concreta dei rischi. Siamo noi che possiamo sottrarli a questa diabolica calamita. Iniziando a dare il buon esempio, e non trasformandoci noi, persone di un’altra generazione, in macchiette della tecnologia che a loro volta, per puro narcisismo, stanno sempre a smanettare con qualche foto da mettere in Rete.
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PER SAPERNE DI PIÙ: Muore a 26 anni, volando per un selfie estremo dal 62esimo piano. Wu era pagato con 13mila, sporchi euro
IL RUOLO DELLA SCUOLA
Poi c’è la scuola. Un concetto moderno di formazione non può escludere, dalle elementari fino a tutto il percorso che si conclude con la licenza liceale, l’educazione digitale. Anche con la necessaria severità, parola che troppi insegnanti sembrano avere del tutto dimenticato. Abbiamo letto l’esperimento appena avviato a Piacenza, dove all’istituto San Benedetto, è nata la prima scuola “phone-free” d’Italia. Applicando questa volta a vantaggio dell’uomo la tecnologia, il preside Fabrizio Bertamoni ha reso obbligatorio l’uso di un sacchetto, prodotto negli Stati Uniti, dove lo usano nelle scuole, nei teatri e nei musei, che scherma completamente i cellulari.
All’inizio di ogni lezione l’insegnante consegna agli studenti questa speciale custodia, dove il cellulare finisce per essere completamente isolato fino al termine della giornata scolastica. Il preside, nel presentare la sua iniziativa alle famiglie, ha fatto presente che si tratta di uno strumento di difesa, educativo, per i ragazzi, un aiuto, da tenere presente anche per casa. E le famiglie lo hanno appoggiato. Forse si sono accorte di due numeri: 10 ore di connessione ogni giorno via smartphone dei ragazzi tra i 15 e i 24 anni; 75 volte al giorno, la media di consultazione del cellulare per i giovani tra i 15 e i 20 anni. È nella zona grigia di questa compulsione tecnologica che si ape il baratro nel quale un ragazzo di 15 anni si lascia attirare da un selfie estremo. E ci rimette la vita.
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POCHE MA EFFICACI REGOLE PER L’EDUCAZIONE DIGITALE:
- Smartphone in classe, portiamolo a scuola. Ma insegniamo a usarlo senza esserne schiavi
- Al bar con il cellulare spento. A Milano ci provano una ventina di locali: un modo per ridurne l’uso esagerato. E riscoprire il galateo
- La scuola dovrebbe insegnare a difendersi dall’invasione della tecnologia. Invece fa il contrario
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