L’unanime consenso, e perfino l’ammirazione bipartisan, di cui gode Sergio Marchionne hanno diverse spiegazioni. Al netto del conformismo in cui diventiamo maestri in un Paese sempre a caccia di eroi e povero di classe di classe dirigente autorevole, bisogna riconoscere che il ceo della Fiat e’ riuscito ad accumulare molti meriti in poco tempo. Marchionne e’ un manager di razza, estremamente pragmatico, post-ideologico, fornito di una visione di lungo periodo e capace di alzare le vele nel mare tempestoso della globalizzazione. Protetto da un mandato pieno da parte degli azionisti, ha rovesciato la Fiat come un calzino, liberandola di opacita’ gestionali e di cattive abitudini, attrezzandola con una squadra di nuovi dirigenti, e concentrandola sul suo core business come non si era mai visto in passato. A Torino finalmente sono tornati a pensare a come costruire buone macchine, senza disperdere energie e risorse in un disordinato impero di partecipazioni da azienda-Stato, e l’operazione Chrysler ha dato alla holding italiana un profilo internazionale. Sia chiaro: la strategia di Marchionne finora ha funzionato innanzitutto perche’ ingenti finanziamenti pubblici, in America come in Italia, sono stati destinati dai governi all’obiettivo di salvare un pezzo importante dell’industria manifatturiera nazionale. E anche le concessioni ottenute dai sindacati fanno parte di uno sforzo collettivo che non puo’ essere messo sul conto di una singola persona e delle sue capacita’ di comando aziendale. Marchionne piace, non perche’ esistono borghesi “buoni” o “cattivi”, ma piu’ semplicemente per il fatto che ha dimostrato di sapere fare, e bene, il suo lavoro, dentro e fuori le fabbriche della Fiat.
Ma c’e’ un ulteriore elemento che aiuta a decifrare una fenomenologia cosi’ radicale da catapultare l’amministratore delegato della Fiat con largo anticipo, prima ancora che i risultati della sua gestione siano completamente compiuti, nel pantheon degli uomini che cambiano la storia economica dell’Italia. E Marchionne, in modo involontario, lo ha svelato durante il suo discorso al Meeting di Rimini, quando si e’ lanciato in una radiografia di fondamentali punti di debolezza del nostro sistema Paese. Invadendo perfino il campo, ma a Marchionne anche questo e’ concesso, il capo azienda della Fiat ha denunciato l’immobilismo e le resistenze al cambiamento in un’Italia corporativa, incapace di cavalcare l’onda lunga dell’innovazione e condannata cosi’ al declino. Un discorso politico, comprese le citazioni che hanno spaziato da Macchiavelli a Pavese, interrotto da ventuno applausi, ispirato, conoscendo il personaggio, solo dal buon senso e non certo da ambizioni pubbliche. E proprio nel vuoto della politica, nella sua incapacita’ di dare una rotta e dei contenuti al cambiamento, di farci sognare un futuro senza restare schiacciati nel presente, che l’aurea affermazione del personaggio Marchionne trova la sua radice piu’ profonda. Cosi’ il manager di un grande gruppo industriale si ritrova, con una moltiplicazione di riconoscimenti, ad occupare uno spazio che non gli compete, fino a diventare il virtuoso supplente di un establishment che intanto rischia di sprofondare nella palude dei veleni di un’estate da paese impazzito. E tra coloro che piu’ applaudono ai meriti del capo azienda, piu’ mostrano di condividerne la sua *filosofia di fondo, a guardarli in faccia, ci sono le stesse persone che hanno abdicato al loro ruolo e all’esercizio di quel primato che compete alla politica. Marchionne, senza saperlo, li inchioda di fronte allo specchio delle loro responsabilita’.
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