Giuseppe de Rita
Negli ultimi dieci giorni, nella tradizionale nostra coazione a fare i guardoni, ci siamo lanciati con voracità su tutte, tutte, tutte le notizie, notiziole, indiscrezioni, supposizioni che hanno costellato «l’evento» del momento: la morte di Osama Bin Laden, avvenuta in una stravagante dimora e in una oscura successione di fatti. Al di là delle tante perplessità politiche e morali espresse in questi giorni, si ha l’impressione che la gran parte dell’opinione pubblica sia rimasta affascinata dall’alto livello delle tecnologie operative, dal materiale militare e dal volume di risorse che per quell’evento sono state essenziali. Traendone implicitamente la conclusione che chi può disporre dei tre fattori indicati (tecnologia, armi e finanza) può contare su un altissimo livello di superiorità e potenza.
Ma tale potenza e superiorità producono anche egemonia e leadership sociopolitica? Non ci si può nascondere che in tutto il mondo non sono unanimi gli inni «ai vincitori»; e che comincia ad affermarsi l’idea che la cultura occidentale (nordamericana ed europea) non esercita più l’antica centralità storica nelle vicende mondiali, segnate da una crescente molteplicità dei valori e dei comportamenti. Diciamoci la verità: i tre citati grandi fattori (soldi, tecnologie e armi) esaltano la dimensione muscolare delle vicende internazionali, ma non producono intimo significato per le vite individuali e collettive e non producono senso della Storia. Essi sono infatti tutti autoreferenziali e banalmente autopropulsivi, visto che (come ci insegnò anni fa Emanuele Severino) la tecnologia mira a sviluppare più tecnologie; gli apparati militari tendono ad alimentare la loro centralità; e la finanza prolifera in sempre più finanza. Manca ad essi la capacità di relazionarsi con il mondo esterno e farlo crescere. Per cui poche centinaia di eletti pensano di fare storia con il dispiegamento della loro potenza, mentre miliardi di persone stanno solo a guardare, magari affascinati dalla sofisticazione dei droni e degli elicotteri o dalla piantina del compound di Bin Laden.
Ma così non si acquisisce leadership, la si perde. I tantissimi che stanno a guardare si rifugiano nella indifferente soggettività del loro sopravvivere, del loro possibile viver al meglio, della loro vicenda esistenziale; mentre si sfaldano o non si coagulano interessi collettivi, movimenti collettivi, mobilitazioni collettive, e comuni processi di sviluppo. Per cui, alla fine, di fronte alle orgogliose dimostrazioni di potenza occidentale, finiscono per avere paradossalmente più dinamica storica e sociale quelle confuse e un po’ scalcinate «rivoluzioni nordafricane », che agiscono senza armi, senza tecnologie, senza soldi; ma che hanno una «fame di mondo» che la cultura occidentale non ha più modo neppure di desiderare.
Forse perché essa non sente più nel suo profondo quell’esortazione ad «avere mondo», che ci hanno lanciato di recente alcuni grandi giudaico-cristiani (da Levinas al Giovanni Paolo II del «non abbiate paura »), nella convinzione che chi ha ambizioni e volontà di leadership (ebreo, cristiano, musulmano che sia) porta sempre dentro di se un’impronta abramitica, la chiamata cioè ad uscire dalla propria terra per fare mondo. Perché, rispetto ai recinti di potenza autoreferenziale, il mondo è altrove, per fortuna ancora altrove.
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