Questo è un reportage che ho scritto per Il Messaggero a proposito della Terra Santa, del prossimo viaggio del Papa e del ruolo essenziale dei frati francescani a difesa dei luoghi più cari al cristianesimo e di una pacifica convivenza tra le tre grandi religioni monoteiste (cristianesimo, ebraismo e islamismo). A prescindere dal credo di ciascuno, e di un Dio che considero di tutti, pubblichiamo questo testo con un appello: se volete non sprecare soldi e tempo, aiutate i francescani, con generosità, per il loro lavoro e per la loro missione. Come? Potete farlo in tanti modi: scegliete quello migliore attraverso il sito www.custodia.org
Da Il Messaggero
Betlemme. Papa Francesco è già qui, anche se fisicamente arriverà in Terra Santa soltanto nel prossimo mese di maggio. Lo senti chiaro e forte nelle parole dell’omelia pronunciata in arabo e in latino dal patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal, durante la messa solenne del 25 dicembre nella Basilica della Natività: «Rinunciate alle armi e andate incontro agli altri con il dialogo, il perdono e la riconciliazione, così ha detto il Santo Padre. E noi cristiani siamo qui. Nonostante le persecuzioni che stiamo subendo, la nostra risposta non sarà la fuga. Rimarremo qui a vivere ed a morire». Lo senti durante la commemorazione di Santo Stefano, 26 dicembre, nel convento greco ortodosso di Mar Stephanos, a Gerusalemme, dove il primo martire cristiano fu lapidato e dove arrivano, come pietre, le ultime notizie dal fronte siriano, quello che più preoccupa il Papa in questi giorni. Una polveriera, con i miliziani dell’integralismo islamico che non perdonano, non dialogano e non vogliono alcuna riconciliazione. Anzi. Uccidono, innanzitutto i bambini, e vietano nei villaggi dove spadroneggiano ogni simbolo del cristianesimo, dalle croci sulle porte dei conventi al suono delle campane nei momenti canonici della giornata. Lo senti nell’attesa della celebrazione dell’Epifania, la festa di quei Re Magi che Francesco ha scolpito nell’enciclica Lumen Fidei come esempi viventi di uomini che cercano la fede, un dono di Dio.
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Nei giorni di Natale in Terra Santa, a partire proprio dalla messa a Betlemme del 25, l’atmosfera che circonda i cristiani in preghiera è allegra. In chiesa si celebra un emozionante e lungo inno di gioia. Con i canti gregoriani, recitati a squarciagola dai fedeli che gremiscono ogni angolo della Basilica. Con un altare multietnico, incrocio religioso di popoli e di razze sotto il segno del cristianesimo: dal parroco e viceparroco di Betlemme ai frati francescani avvolti nel saio, segno di riconoscimento della loro missione, qui, di custodi dei Luoghi Sacri dal lontano 1421 (bolla di Papa Martino V). Finita la messa, il tepore di una giornata di dicembre che sembra primavera riscalda i saluti e lo scambio di auguri all’ingresso della Basilica. Abbracci, baci, sorrisi. Ma l’incantesimo è spezzato, quasi un sussurro corale, dalla preoccupazione di quanto sta avvenendo proprio in Terra Santa e in generale in Medio Oriente.
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In un attimo l’atmosfera della festa sembra dissolversi. Senti le parole dell’angoscia, della paura umana, e le voci dell’attesa di un viaggio già storico: Papa Francesco arriverà con la primavera, a cinquant’anni di distanza da Paolo VI (1964) e in continuità con Giovanni Paolo II (2000), e Benedetto XVI (2009). Il programma ufficiale sarà reso noto tra qualche giorno dalla Santa Sede, ma qui, a Betlemme, è come se fosse tutto definito a proposito di una visita attesa come una benedizione celeste. «Non possiamo pensare al Natale senza pensare alla Terra Santa» ha ricordato il Papa gesuita che ha voluto intestare la sua missione proprio a San Francesco d’Assisi, protagonista di un fitto dialogo con il sultano Melek al-Kamel negli anni bui delle crociate. E “pensare” alla Terra Santa significa ricordarsi di noi, i cristiani a rischio estinzione e cancellazione nei luoghi sacri per definizione, e di loro, i francescani che fanno scudo, con il corpo, con una naturale tolleranza e con un’impressionante erudizione, a presidio dei posti dove Gesù è nato, ha predicato ed è stato ucciso. Qui a Betlemme, come a Gerusalemme e in ogni angolo della Terra Santa, i francescani, non si sentono martiri: non ne hanno né il tempo né la voglia. Devono pregare, studiare, accompagnare i pellegrini, restaurare i luoghi santi, fare volontariato a tutto campo. Sono guide spirituali, ma anche archeologi e teologi, e alle loro porte, come le case di accoglienza, basta bussare. Aprono sempre.
APPROFONDISCI Il volontariato al tempo della crisi
L’accoglienza, il volontariato, l’assistenza ai poveri e agli ultimi, senza distinzioni di razza e di fede, qui a Betlemme rappresentano pane quotidiano per la comunità cristiana. Dopo la messa e dopo lo scambio di auguri, don Mario, assistente del patriarca Twal e prete missionario, ci accompagna nella Casa dei Gesù Bambini, a pochi passi dalla Basilica della Natività. Entriamo e restiamo senza fiato di fronte alla pulizia, all’ordine, alla cura di ogni particolare, di questa casa-famiglia che ospita 22 bambini di Betlemme, orfani o con gravissimi handicap. È pronto il pranzo di Natale, una lunga tavolata, comprese sei suore missionarie, della congregazione Serve del Signore, che accudiscono giorno e notte i bambini, curandoli come se fossero dei figli. E con loro, di nuovo qualche volontario arrivato dall’Italia: un medico, uno studente universitario, un maestro di scuola. Sono a Betlemme per fare un’esperienza sul campo e per dare un contributo alla difficile sopravvivenza dei cristiani in Terra Santa. E sono qui, pronti, come dei soldati del bene senza se e senza ma, ad accogliere a braccia aperte Papa Francesco.
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