PAURA TERRORISMO ITALIA –
«La mia non è ancora paura, ma angoscia, apprensione. Un senso di vuoto…»: lo scrittore Raffaele La Capria mi riceve nel suo salotto, dove un gatto nero, avvolto sulla poltrona, ci fa compagnia durante tutta l’intervista. Parliamo di paura. Guerra e paura. Il sentimento che, dopo l’escalation degli attacchi dell’Isis e dopo le stragi di Parigi, sta modificando i nostri stili di vita.
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- Il vuoto deriva dalle domande senza risposte?
Abbiamo un nemico che non conosciamo. Un fantasma di stato, di combattenti, di obiettivi. Siamo immersi nel buio di una stanza, dove la luce, neanche un raggio, non riesce a filtrare. E quasi mi ossessiona pensare a mia figlia, abituata a salire e scendere dagli aerei, con molta normalità. Mi chiedo: potrà continuare a farlo?
- Non è la stessa paura che avete provato durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale?
Penso spesso ai quei giorni. Ma non riesco a trovare, nei miei ricordi, il terrore. Vivevamo la guerra, le bombe, con una certa incoscienza: un mio amico si fidanzò durante quelle notti nei rifugi antiaerei.
- Dove nasceva la vostra incoscienza?
Era un’incoscienza vitale, per la vita e non per la morte. E durò poco, perché arrivò l’energia della ricostruzione, quando in poco tempo ci fu il miracolo della ricostruzione di un Paese distrutto. Gli anni più belli della mia vita.
- La paura si combatte innanzitutto non rinunciando alla normalità. È uno sforzo difficile?
Sovrumano, quando il nemico è inafferrabile, e non lo vedi. Quando la sua spietatezza non puoi decifrarla né con la fantasia e con l’immaginazione né con lo strumento della psicologia. La sua idea della vita è completamente diversa dalla nostra.
- Hitler, però, non era meno spietato.
Ma incarnava un’ideologia, un esercito, e apparteneva al nostro modo di essere. Infatti lo abbiamo sconfitto sia sul piano militare sia su quello culturale. Oggi, di fronte al fantasma che ci attacca, non vedo alcuna via d’uscita.
- Come si combatte la paura?
Con la razionalità per interpretare la situazione che in cui ci troviamo. E con alcuni punti fermi in testa.
- Per esempio?
Una grande fede in noi stessi, nel nostro modo di vivere e di pensare. E la consapevolezza che, purtroppo, libertà e sicurezza non sono diritti acquisiti.
- La razionalità non la porta a pensare che vinceremo anche questa guerra?
Non ora. Piuttosto mi trascina a percepire un destino di autodistruzione, che nasce anche dal circolo vizioso in cui siamo infilati. Loro hanno il petrolio, essenziale per le nostre fabbriche dove costruiamo perfino le armi che vendiamo a chi vuole distruggerci.
- La letteratura può aiutare a vincere la paura?
Moltissimo. Ci insegna quanto il bene e il male, insieme, facciano parte della vita. Inoltre la letteratura è narrazione, stabilisce un ordine, un baluardo, senza il quale saremmo perduti nell’insensatezza del caos.
- Lei ha detto che i conflitti si vincono anche con la cultura, e dunque riconoscerli è già un passo avanti. Dopo Parigi non si parla più di terrorismo, ma di guerra: mi sembra una presa di coscienza importante.
Sì, come è importante la consapevolezza degli errori che abbiamo fatto. In uno dei paesi e delle città più civili del mondo, parlo della Francia e di Parigi, per anni abbiamo assistito a un’immigrazione che ha separato invece di unire. Loro barricati nelle periferie, a spacciare droga, a marcire nella disperazione, a organizzare la rivolta; e i parigini felici di vivere una rispettabile quotidianità. Una frattura che non poteva reggere al peso della storia, e alle sorprese che ci riserva.
- Intanto la Francia è isolata in Europa nella risposta militare: nessuno sembra avere voglia di aiutarla sul campo, con uomini e mezzi.
Sono molto scettico sugli attacchi aerei che rischiano sempre di colpire la popolazione inerme e aumentare l’odio. Servirebbero operazioni di terra, ma nessuno vuole farle. Mi ha sorpreso, per esempio, l’atteggiamento della Germania, naturale alleato della Francia, che questa volta ha voltato le spalle.
- I veri alleati della Francia sono due dittatori: Putin ed Erdogan. Un bel paradosso.
La storia è fatta anche di queste cose. Senza la Russia non abbiamo alcuna speranza di fermare l’Isis.
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- Rimpiange l’interventismo militare americano?
No, anche perché le guerre che ha fatto l’America nel secondo Novecento sono state tutte sbagliate. Il mondo è cambiato, per esempio, dopo la guerra del Vietnam, che ha infranto il mito dell’invulnerabilità americana.
- Quanto pesa la religione in questa guerra?
Tanto. Loro una fede la posseggono, noi più a parole che a fatti. Certo, se Dio esiste è sicuramente uno solo, e non può essere sdoppiato nell’islam e nel cristianesimo.
- Lei come si pone di fronte a Dio?
Credo nel mistero. E mi fermo di fronte all’insondabile: Dio può esserci, ma non come lo immaginiamo.
- Il mistero, in fondo, nasce con la vita stessa.
Ho 93 anni, e ho provato a calcolare con il mio medico quanti battiti ha fatto finora il mio cuore. Miliardi. Eppure continua a fare intrepido il suo lavoro: ecco il mistero.
- Se la religione conta, abbiamo il dovere di ricercare un dialogo su questo terreno.
So di dire una cosa pesante, ma allo stato dei fatti il dialogo mi sembra impossibile. Come le ho detto, la loro idea della vita e della morte, è troppo distante dalla nostra. Ecco perché non si fanno scrupoli a saltare in aria imbottiti di esplosivo.
- Capisco il suo pessimismo, ma Spinoza diceva che la paura non può essere senza speranza e la speranza non può essere senza paura.
Qui la speranza, al momento, è solo una ragione pratica, la consapevolezza che questa guerra può portare all’autodistruzione dell’uomo, alla fine del mondo.
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